Djuna Barnes, “la più famosa sconosciuta del secolo”

Djuna Barnes, “la più famosa sconosciuta del secolo”

Se esisteva un centro intellettuale dell’esperienza degli espatriati parigini, questo si trovava in rue de l’Odéon. Sylvia Beach e Adrienne Monnier offrirono i contributi più importanti alla vita di questa comunità letteraria, ponendosi come punto focale degli scambi sociali e artistici. La Shakespeare and Company e La Maison des Amis des Livres divennero il fulcro della vita letteraria degli espatriati, un luogo dal quale si irraggiava qualunque altra attività e che attirava figure di ogni sorta – maschi, femmine, ricchi, poveri, famosi, sconosciuti, talentuosi o mediocri. Durante il giorno, rue de l’Odéon era una via trafficata con poeti e romanzieri, drammaturghi e traduttori che facevano la spola tra le due librerie gemelle. Alla sera, tuttavia, era quasi sempre silenziosa, e vi echeggiavano solo i passi degli individui solitari che prendevano una scorciatoia dai quais a Montparnasse. (…)

Pur essendo famosa nel gruppo di rue de l’Odéon, Djuna Barnes probabilmente non trascorse molto tempo nelle due librerie. Faceva parte della “cricca” di McAlmon, come la chiamava Sylvia, nota a tutti gli espatriati che in precedenza avevano fatto parte del gruppo del Greenwich Village. Si parla di lei in quasi tutti i primi resoconti del periodo, soprattutto in virtù della sua bellezza e del suo ingegno caustico. Passava molti pomeriggi e serate nei caffè lungo il boulevard du Montparnasse; sembra fosse famosa dal Dome, al Coupole e al Rotund, ma preferiva il meno americanizzato Café de Flore sul boulevard Saint Germain des Prés. Con indosso una lunga mantella da sera che in origine era appartenuta a Peggy Guggenheim, Barnes si perdeva a lungo nei propri pensieri osservando le attività della strada. Anche se in seguito affermò di avere sprecato quegli anni, in realtà scriveva regolarmente.

Al mattino si sedeva sul suo letto all’Hôtel Angleterre con uno scrittoio portatile appoggiato sulle ginocchia. A qualche isolato di distanza, in rue de Varenne, anche Edith Wharton (di cui Barnes detestava l’opera) stava scrivendo, sistemata in una posa analoga. Nella sua lunga vita, Djuna Barnes pubblicò sette libri e sperimentò vari generi – compresi poesia, racconti, opere teatrali, saggi brevi e articoli giornalistici, oltre alle recensioni teatrali – e fu ritrattista e illustratrice delle proprie opere. Tra i suoi primi scritti, l’unico letto e ricordato era La foresta della notte, in parte perché l’introduzione di T. S. Eliot (per la quale Barnes nutriva sentimenti ambivalenti) esortava gli studenti di letteratura a prendere seriamente l’opera, e perché il romanzo attirò un seguito alternativo, divenendo parte della cultura del “campeggio” tra i ventenni parigini. La sua reputazione come figura di culto dell’epoca fu accentuata forse dal fatto che la sua opera, come quella di molte altre scrittrici moderniste espatriate, per parecchi anni andò fuori stampa a periodi alterni. Nel 1962 uscì Selected Works of Djuna Barnes, e a metà degli anni Settanta gli studiosi cominciarono a pubblicare analisi esaustive della sua produzione.

Alla stregua del mito sull’esperienza degli espatriati, anche il mito di Djuna Barnes come “scrittrice espatriata” ha avuto origine da una cultura maschile. I suoi rapporti più intimi a Parigi erano con altre donne, che perlopiù difendevano il suo bisogno di privacy evitando di fare lunghe osservazioni su di lei nelle loro memorie. Gli uomini, che la conoscevano meno, trovavano comunque nella sua bellezza e nel suo ingegno caustico un motivo di commento. Spesso è stata ricordata in rapporto a James Joyce, le cui opere sono state oggetto di frequenti raffronti con quelle di Barnes. Era forse l’unica altra scrittrice a Parigi con cui Joyce intavolasse discussioni approfondite sulla propria opera, e l’unica persona oltre alla moglie autorizzata a chiamarlo “Jim”. Barnes trattava Joyce come un suo pari, rifiutandosi di inchinarsi al suo genio straordinario ma trovandovi una fonte d’ispirazione artistica; lui la trattava con grande rispetto. Dato che Joyce sembrava prenderla sul serio come scrittrice, altri furono costretti a farlo. Nonostante questo circolavano battute sulla hauteur che mascherava la sua timidezza, sulle sue preferenze sessuali e sul suo stile di scrittura. Il commento di Walter Winchell secondo cui “Djuna Barnes, la femme scrittrice, è in grado di centrare una sputacchiera a sei metri di distanza” (About New York, 5 giugno 1929) la caratterizza come una lesbica mascolina, tosta e volgare la cui arguzia maschile colpiva nel segno. Questo commento, come molti altri rivolti a Barnes e alle donne della comunità parigina, rivela molto più di chi l’ha scritto che non di Barnes.

La versione di Djuna Barnes proposta da McAlmon è il classico cliché, e la sua immagine di una donna bellissima ma “altezzosa” incline ai gesti teatrali confermava la valutazione di Ezra Pound. Dopo un tentativo fallito di sedurla, Pound aveva descritto Barnes agli amici come una donna che “non era troppo affettuosa” (Field, Djuna, p. 107). Come alcuni altri uomini della comunità, Pound sembrava a disagio con una donna che aveva il controllo delle proprie reazioni sessuali e non aveva ceduto alle sue attenzioni alquanto inopportune. Descrivendo un episodio analogo con Pound, Bryher osservò che in simili circostanze “un’elisabettiana avrebbe urlato o afferrato uno stiletto, ma io ho deciso di restare calma e guardinga”).

La maggior parte dei commentatori non trovava molto da dire sulla vita di Djuna Barnes e non aveva idea di come interpretare le sue opere. Come ha fatto notare Louis Kannenstine, anche se la produzione di Barnes mostra alcune affinità con i maggiori movimenti letterari dei primi anni del Novecento, non si può dire che si conformi del tutto a nessuno di questi.

Scrivendo a Natalie Barney il 31 maggio 1963 in merito alla sua reputazione letteraria, Barnes fece notare la discrepanza tra l’elogio rivolto dai contemporanei alla sua produzione e la successiva assenza di attenzione critica da parte di scrittori e studiosi posteriori: “Non c’è una sola persona nel mondo letterario che non abbia sentito parlare, letto e talvolta rubato da La foresta della notte. Il paradosso è che nonostante la mole di articoli di critica che ha sommerso la stampa dal 1936, non più di tre o quattro hanno menzionato il mio nome. Sono la più famosa sconosciuta del secolo! Non riesco a spiegarmelo, a meno che il mio talento non sia il mio carattere, il mio carattere il mio talento, ed entrambi un’estraniazione”.

(…)

In una comunità di donne bellissime, Djuna Barnes era considerata la più incantevole. Anche se si mostrava indifferente agli sguardi che si soffermavano sui suoi mirabili lineamenti, si dedicava con grande cura al proprio aspetto, vestiva sempre con stile nonostante le presenti difficoltà finanziarie, portava sempre un rossetto rosso scuro e uno smalto rosso sangue. Tra le altre donne moderniste, Barnes, Mina Loy, Jean Rhys e Anaïs Nin affrontarono nella loro narrativa la questione del rapporto della donna con il suo corpo; nell’opera di Barnes, le idee disparate e spesso contraddittorie che aveva del proprio corpo si riflettevano nelle sue eroine. Le donne di Ryder sono vittime dei naturali processi femminili – mestruazioni, gravidanza. Sembrano incapaci di sfuggire ai loro corpi o controllarli. L’Almanacco per signore invoca un’accettazione, perfino una celebrazione delle funzioni del corpo femminile. La foresta della notte mostra una donna divisa contro la propria fisicità. Le è stato insegnato a oltraggiare il corpo e a essere disgustata dalle sue funzioni; la società ne fa lo strumento della sua stessa distruzione. In vari momenti della sua vita, Djuna Barnes sostenne ciascuna di queste prospettive sull’anatomia femminile.

Essendo una donna consapevole del potere della propria bellezza, capì di poterla usare per manipolare gli altri ma anche che la sua bellezza poteva essere manipolata. In un breve incontro con Gertrude Stein, per esempio, l’aspetto di Barnes suscitò la gelosia di Alice Toklas, e al contempo confermò a Stein che Barnes non era una persona da prendere sul serio: “Lo sapete cos’ha detto di me? Ha detto che avevo gambe bellissime! E questo cosa c’entra? Ha detto che avevo gambe bellissime! Vorrei proprio sapere perché, perché l’ha detto? Insomma, se proprio devi dire qualcosa di una persona … Non la sopportavo. Doveva essere al centro di tutto. Un ego mostruoso. Il fratello – com’è che si chiamava? Leo. Leo Stein. Poveretto. Era un ragazzo carino. Lei lo ha semplicemente divorato!”.

Stein aveva ridotto Barnes a una donna “semplicemente” bella, l’aveva accantonata come un accoutrement decorativo, facendone un oggetto. La reazione di Stein a Barnes rafforzava l’economia metonimica del mondo eterosessuale in cui gli uomini misurano il valore delle donne da alcune parti del corpo (seno, sedere, gambe, capelli), riducendo la donna completa alle sue componenti sessuali. Essendo bellissima, Barnes era particolarmente consapevole di essere l’oggetto degli sguardi bramosi degli uomini e ispezionata dagli sguardi fugaci delle donne. La profonda insicurezza di Barnes e l’ambivalenza sul proprio corpo è evidente nelle fotografie, che la ritraggono quasi sempre di profilo, sottolineando la sua divisione interiore. Mal sopportava le richieste avanzate dal suo corpo, i modi in cui questo proclamava una sensualità alla quale non poteva rispondere. Con la sua immensa vanità, Barnes affettava una posa che attirava l’attenzione sulla sua bellezza e tuttavia risentiva di tale attenzione e si opponeva agli effetti della vanità, in particolare alla trappola sessuale. Era sempre consapevole che il suo stile poteva essere confuso con la sua sostanza (com’era successo a Stein, sembrerebbe), che la sua bellezza poteva celare con successo il suo intelletto. La bellezza di Barnes la rendeva vulnerabile; la sua difesa era un’altera indifferenza.

tratto da Shari Benstock, Donne della Rive Gauche, Somara!Edizioni, 2018

Torna in alto