Vivian Maier, la bambinaia.
Se la fotografia, specialmente quella di strada, è essenzialmente un atto predatorio, Maier fu predatrice per eccellenza.
A rappresentare la nostra Associazione su Facebook abbiamo scelto un’immagine di Vivian Maier. Cinque bambine giocano su un’asta di ferro, tutte a testa in giù. Una rocambola del genere da piccola mi costò una caduta ed un labbro gonfio e sanguinante. Ma queste bambine, tutte sorridenti, sono equilibriste perfette, e la foto è tanto naturale da risultare artificiale (paradossi che la fotografia consente). Eppure le bambine, per quel che ne sappiamo, non sono in posa, e questo è uno dei tantissimi scatti felici di Maier, che più di tutto ha prediletto questo ambito fotografico, la street photography, anche se, negli oltre quarant’anni di attività, il suo occhio ha attraversato tanti generi.
Chi era Maier? Di lei, il gioco di ombre e luci, accatastate alla rinfusa in superficie, non coincide con la risoluta ed inaspettata luminosità nascosta nella sua esistenza. Maier non era fotografa di mestiere, lei di professione faceva la bambinaia: un lavoro che le serviva, molto praticamente, per avere un tetto sulla testa ed essere molto libera di andare, girare all’aria aperta, sulle strade, magari accompagnata proprio dai bimbi che accudiva. Ogni giorno usciva di casa, sempre e immancabilmente con la Rolleiflex appesa al collo, (parte inseparabile di lei), per compiere il suo personale “safari”: lo sguardo che, instancabile, girovagava per stanare un’umanità che sentiva il bisogno di fermare e trattenere. Chiamiamola vocazione. Per ora.
La mole di foto che ci ha lasciato è impressionante, più di 150.000 scatti tra foto stampate (un numero esiguo), negativi sviluppati, e una gran mole di rullini non sviluppati. Negli anni accumulò centinaia di scatoloni ingombranti che, cambiando lavoro e casa perché i bambini crescevano, portava con sé, imbarazzando non poco i suoi nuovi e diversi datori di lavoro, che dovevano garantirle una stanza in cui accatastare quel materiale (condizione che lei poneva come imprescindibile per accettare il lavoro). Ma negli scatoloni Maier non conservava solo materiale fotografico, era un’accanita collezionista, un’accumulatrice seriale di quotidiani, riviste di cinema, articoli ritagliati di recensioni teatrali e altri vari argomenti che la appassionavano. Da pochissimi anni, e casualmente, il suo immenso tesoriere fotografico è stato scoperto. Maier fu costretta, negli anni difficili della vecchiaia, a spostare decine e decine di scatoloni in garage a pagamento, di cui non riusciva poi a pagare l’affitto. Alla fine tutto venne messo all’asta, e nel 2008, da quegli scatoloni, sottratti al buio e all’incuria, uscì un enorme patrimonio di immagini. Solo nel 2010 si poté scoprire chi ne fosse l’autrice, proprio l’anno e il momento in cui Maier morì per una caduta accidentale, del tutto inconsapevole di quanto il suo lavoro stesse destando scalpore.
Maier muore senza sapere che il mondo stava scoprendo in lei una grande artista, una poeta di immagini fissate sulla carta.
Per alcune analogie la si è prontamente e, forse affrettatamente, paragonata a Emily Dickinson. Di Dickinson si può certamente dire, perché lo si desume dalle sue lettere, che conoscesse bene il valore del suo lavoro, come sembrava capire altrettanto bene che i tempi non fossero ancora pronti ad accoglierlo e comprenderlo. Di Maier si può altrettanto certamente dire che desse molto valore al suo lavoro, perché non se ne staccava mai, ma non pare proprio volesse consegnarlo alla posterità, non c’è nulla che faccia pensare che quel suo incessante occhio predatore guardasse con la volontà di affidare ad altri le immagini catturate. Maier fotografava per sé stessa. Qualsiasi valore e significato avesse per lei quell’attività … la svolgeva unicamente a suo uso e consumo. Siamo noi, ora, che guardando affascinati le sue fotografie (lo state facendo? fatelo!), desideriamo vedere chi ci fosse dietro quelle foto, di conoscere quei dettagli biografici in grado di illuminare i tanti buchi che circondano la sua esistenza.
Di Maier si sa pochissimo, la sua è una vita consegnata al mistero, e il tempo ha cancellato le sue impronte terrene (nessuno pensava di doverle conservare con cura…); abbiamo solo frammenti spersi nel tempo, aneddoti sulle sue stravaganze, testimonianze discontinue di gente che ha sfiorato superficialmente la sua vita. Perché solo superficialmente Maier apriva sé stessa agli altri, nessuna intimità era in grado di stabilire con le persone. Maier detestava parlare di sé, di sé non parlava proprio: amava parlare di cinema semmai, di attori e attrici, di teatro, o di politica; era scontrosa, a volte poteva essere una persona davvero fastidiosa, per nulla empatica nelle relazioni.
Ma servono davvero tanti dettagli biografici, le minuzie della vita quotidiana, l’esatto procedere dei suoi giorni e anni, per capire chi fosse Maier, per restituire il senso della vita di Maier? Non basta piuttosto, partendo dai frammenti che possediamo di lei, arrivare alla sua essenza, alla sua verità esistenziale ed artistica? La sua realtà interiore certamente fa tutt’uno con la sua arte, non può essere che così, nessuno, vive separato da sé stesso. Dunque Maier persona è dentro il suo modo di fotografare, è dentro le immagini che ci ha lasciato, spesso toccate da delicata ironia, e dalle bizzarrie ed eccentricità contenute nei giorni qualunque che a lei non potevano sfuggire. Forse, come è stato detto, l’unico modo in cui ci è dato tentare di vederla è attraverso ciò che i suoi occhi hanno visto e trattenuto nelle immagini.
Perché Maier fotografava così tanto, compulsivamente, quasi comandata da segrete divinità? Una volta scelto il soggetto, le bastava uno scatto, uno solo, e azzeccava al primo colpo la foto felice. Che era solo per lei, in libertà, fuori da ogni vincolo: non mostrava a nessuno il suo lavoro, non tentava di farsi conoscere e di collocare sul mercato le sue immagini. Cosa significava per lei, donna dalle caratteristiche singolari, carica di una diversità che si percepiva a vista (con i suoi abiti sempre uguali, le sue bluse ampie colorate, i suoi cappelli datati, le sue gonne, sempre quelle, che diventavano vecchie e fuori moda, le sue scarpe basse e pratiche), donna che sembrava sempre essere fuori tempo e fuori luogo a detta di chi la incontrava, scattare foto? Stampava e sviluppava pochissime foto: dunque non arrivava quasi mai al momento di sapere quale fosse stato il risultato dei suoi scatti. Non le interessava il risultato? È anche vero che stampare costava, e lei probabilmente non poteva permetterselo. Ma forse è più in linea con la “persona tutta intera” Maier, pensare che ciò che le era veramente necessario era guardare nel mirino e scattare, quell’ illusione di afferrare il pezzo di mondo davanti agli occhi. La contemplazione, il giudizio finale sul suo lavoro, la revisione ed interpretazione di un’inquadratura nel momento della stampa, non le importavano poi molto.
Molto acutamente si è fatto il parallelo con la musica, per affermare che l’atto di scattare una foto è come la composizione musicale, mentre la stampa è l’atto di eseguirla. In questo senso lei fu una compositrice che non eseguì mai, o ben poco e ad intermittenza, la sua opera. Per Maier fotografare non era solo un piacere, un divertimento, un hobby: e dopo aver guardato dieci, cento foto di Maier si capisce che dentro quelle immagini non c’è nulla del fotografo casuale e amatoriale, sembra esserci piuttosto, oltre ad una sapienza di sguardo (probabilmente innata, ma anche influenzata dall’abitare, da piccola, a casa di una fotografa), un bisogno che viene dal profondo; mentre ammiriamo con stupore i volti infastiditi, a volte molto irritati, o semplicemente sorpresi delle persone che fotografa, invase dal suo occhio tenace, nel riflesso degli sguardi a lei rivolti noi la vediamo, o meglio ci pare di intravederla.
Fotografare è un atto di relazione, e in Maier, appartata e schiva, portata all’evitamento sistematico dell’esposizione della propria interiorità, percepiamo l’enfatizzazione di questo assunto: è così che Maier sta al mondo, sta nel mondo, è così che lo abita: attraverso i frammenti di ciò che vede e raccoglie, nell’atto di guardare e scattare; rappresentando il mondo davanti a sé lei riesce a prenderne coscienza, e a ri-comporlo dentro sé stessa; e così facendo arriva a collocare sé stessa nel mondo che fotografa. Questo il giudizio della critica su Maier persona/artista: fotografare diventa il suo modo di stabilire un contatto di scambio e relazione con l’esterno. Una possibilità di maggiore vicinanza col mondo, l’unico suo modo, un modo privilegiato di stabilirne una. Ecco: la sua intimità col mondo.
La fotografia – come Susan Sontag ha spiegato bene – è questo: appropriarsi della cosa fotografata, darle importanza, farci sentire che tutte le immagini che catturiamo ci entrano in testa, di avere in testa il mondo, dandoci una sensazione di conoscenza e quindi di potere. In più la proprietà materiale di una immagine fotografica è di diventare oggetto, oggetto leggero e facile da portare con sé, da conservare e accumulare. E qui esce il carattere di Maier, che abbiamo visto essere maniacale nell’accumulo di cose. L’ambiguità della fotografia sta nel rendere vicine e “prendibili” le cose, ma anche nel poterle tenere a debita distanza da noi. Vicinanza e lontananza convivono e si scontrano. L’ obiettivo fa da tramite, ma anche da rassicurante confine tra ciò che si vede e ciò che altri vivono, non noi, distanti quanto basta da non dover partecipare alla scena che davanti a noi si svolge. Con la macchina fotografica al collo, Maier s’avvicinava certamente di più al mondo, ma la distanza emotiva che verso esso sentiva veniva altresì confermata: dal mettersi sì dentro la scena, ma stando dietro l’obiettivo.
Quanti corpi e facce di persone ha fotografato? Tantissime, anche la sua appare svariate volte: in alcune fotografie è al centro di uno spazio che la vede protagonista, in altre si perde quasi invisibile nel riflesso o nella lucentezza di qualche oggetto. Spesso la sua inconfondibile sagoma intera, cappello in testa gonna lunga, la si vede come ombra disegnata dal sole che affianca i soggetti animati o inanimati che fotografa, a volte la sua ombra sovrasta e circonda l’intera scena. Ecco Maier dentro il mondo. Il suo era un dire “io sono qui”, un’ affermazione di esistenza liberata da antiche prigionie, o era semplicemente un modo di tracciare gli anni che passavano? E tutti quei corpi, quelle facce infastidite, che la vedono, e non possono fare altro che lasciarsi prendere dal suo obiettivo… facce meravigliose di gente bella, perché benestante, e brutta, perché povera e in condizioni disperate: Maier è stata una magistrale interprete, democratica ed imparziale: nelle sue foto c’è tutta l’umanità che anima le grandi metropoli di New York e Chicago negli anni ‘50 e ‘60. Documenti preziosi di mondi che non esistono più. Ma Maier non documentava per cambiare il mondo – per mostrare al mondo come fosse quel mondo – ma solo per sentircisi dentro, accumularlo ed archiviarlo.
Tutte le foto sono superfici piatte con impresse immagini che invitano, appunto, ad immaginare, e ad andare oltre quei volti, quelle storie. Maier è enfasi e paradigma di ciò che Sontag afferma sulla fotografia: “La suprema saggezza dell’immagine fotografica consiste nel dire: questa è la superficie, pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è di là da essa, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo aspetto. “.
E da qui parte l’invito a riflettere, ad esplorare ed indagare Maier, la sua rappresentazione della realtà, che è la sua personale e straordinaria invenzione e visione del mondo; e per quanto, l’atto di fare una fotografia sia solo un’apparenza di conoscenza, di saggezza e di appropriazione – come alla fine crede Sontag – di questo vano, ma necessario, tentativo ognuno di noi vive. (R.M.)