WARIS DIRIE, dai deserti africani per gridare al mondo il crimine delle mutilazioni genitali.
Nessuno sceglie dove nascere e a Waris tocca nascere in Somalia, nel 1965, in una famiglia di pastori nomadi poverissima e numerosa, lei è una dei 12 figli. In molti paesi africani non esiste un’ anagrafe e quando nasce nessuno pensa di segnare il giorno (forse ha un senso, forse non è contemplato il pensiero che una donna desideri davvero ricordare o festeggiare d’essere nata).
Ogni giorno Waris fa chilometri per andare a prendere l’acqua nei pozzi e poi bada al gregge di capre della sua famiglia.
Waris bambina aspetta un momento particolare, come lo aspettano tutte le bambine della sua comunità e altre milioni sparse in luoghi più o meno remoti del mondo; lo aspetta con impazienza perché sarà il momento in cui diventerà “grande” e sarà trattata come una persona adulta, è un rito di passaggio ed iniziazione. E intorno ai quattro o cinque anni, per lei quel momento arriva, ma non è come se lo era immaginato. La mamma porta lei e la sorella da una donna che con strumenti sporchi le taglia e le cuce nelle loro parti intime, gesti di impatto fisico ed emotivo devastanti, la sorella ne morirà dissanguata in preda ad atroci dolori: è la pratica della mutilazione dei genitali, di tradizione antichissima, dicono risalente all’antico Egitto e praticata sulle schiave per controllarne la sessualità (più tardi da lì verrà importata anche a Roma, dunque precede la nascita della religione cristiana e anche di quella islamica).
“La mutilazione genitale femminile è particolarmente diffusa in ventotto paesi africani.
Le vittime vengono mutilate con utensili d’uso comune – quali lame di rasoio, coltelli, forbici o, peggio, con schegge di vetro, pietre appuntite e persino a morsi. Invece di diminuire, il numero delle ragazze che vengono mutilate aumenta. Molti africani emigrati in Europa e negli Stati Uniti non hanno abbandonato questa consuetudine.
Con l’infibulazione la donna viene privata del piacere sessuale, quindi anche del desiderio, mentre la cucitura della vagina serve a garantire la verginità, assimilata alla purezza: le vergini sono un bene prezioso in Africa ed è questo uno degli inconfessabili moventi dell’infibulazione: mio padre poteva ricavare un ottimo compenso dalla vendita delle figlie belle e vergini.
Se penso che quest’anno due milioni di ragazze subiranno quello che ho subito io, mi sento male e mi rendo conto che quanto più questa tortura andrà avanti, tante più saranno le donne come me, furiose e ferite, che non potranno mai più avere ciò che è stato loro tolto.”
E quando a tredici anni, il padre, in effetti, decide di venderla per cinque cammelli a un uomo di sessantanni, Waris si ribella, riesce a fuggire di notte e per giorni attraversa il deserto a piedi.
Con determinazione straordinaria e molta fortuna, arriva a Mogadiscio dove si rifugia da una zia. Da lì in avanti, per molti anni, avrà un cammino quanto mai duro e incerto ma almeno sarà il SUO cammino.
Dopo qualche tempo decide di partire per Londra, un posto lontanissimo e diverso dalla Somalia, dove ci sono parenti che possono ospitarla: sarà ospite e farà loro da cameriera, dal mattino presto a sera inoltrata e senza riposi settimanali. Riuscirà a riscattarsi anche da questa condizione servile, si guadagnerà da vivere andando a lavare i pavimenti da McDonald’s. Che altro può fare una donna analfabeta? Però lei vuole imparare e mentre lavora si iscrive a una scuola serale. Poi, un giorno, sul suo bel viso, attraversato da inesplorate oscurità, si posa lo sguardo di un fotografo. Da quel momento in poi la sua vita si trasforma e, come in un sogno che non ha mai ha avuto il coraggio di sognare, si fa strada nel mondo della moda diventando una delle fotomodelle più ricercate: è sulle copertine dei più importanti giornali di moda; il suo corpo, che nasconde una ferita indicibile, compare sul Calendario Pirelli e viene usato per le più esclusive campagne pubblicitarie. Waris è libera e a migliaia di chilometri dall’orrore che ha avuto in sorte, ma il suo corpo mutilato le ricorda la violenza subita, non la fa staccare dal martellante pensiero che altre bambine continuano a subire uguali tormenti. Forte della fama e della nuova vita che si è costruita, e forte anche di una nuova sofferta consapevolezza del suo corpo, in un’intervista ad un importante giornale, racconta la sua storia, sapendo che il suo passato si intreccia al presente di milioni di donne che soffrono quotidianamente le conseguenze pesantissime di quelle mutilazioni (i dolori che le accompagnano nella vita quotidiana, le frequenti infezioni, il sesso vissuto nella frustrazione di non poter trarne alcun piacere…). Quanto coraggio ci vuole per mettersi a nudo rivelando la parte più intima e offesa di sé stesse? Da quel momento Waris non si ferma più, ci mette tutto l’ impegno che può, dà tutta se stessa affinché mani aguzzine di donna possano venire fermate.
Scrive la sua biografia “Fiore del deserto” (libro bello e commovente, davvero trafiggente nelle pagine in cui descrive l’infibulazione), ne scriverà altri in cui racconterà aspetti sconosciuti e rivelatori della cultura del suo paese d’origine (i brani citati nel presente articolo sono tratti dai suoi libri). Dalla sua autobiografia viene tratto un film che vale davvero la pena vedere perché ben fatto e ben recitato (“Fiore del deserto” di Sherry Hormann del 2009).
“Mi sveglio in un bagno di sudore. È molto presto, non sono ancora le sei. La notte è stata breve e agitata, con terribili incubi che ricominciavano sempre daccapo. Provo a richiudere gli occhi, ma vedo ancora quelle immagini angoscianti: una miserabile stanza d’albergo, piccola e con la carta da parati ingiallita. Una bambina stesa sul letto, di dieci, dodici anni al massimo. Nuda. Quattro donne circondano il letto e la tengono giù. La bambina ha le gambe spalancate, e una vecchia le siede davanti con un bisturi in mano. Le lenzuola sono zuppe di sangue. La bambina grida con quanto fiato ha in gola. Continua a urlare. Grida da strappare il cuore.
Sono state quelle urla a svegliarmi. E anche adesso sembrano riecheggiare nella mia camera. Mi alzo barcollando e vado a bere un bicchiere d’acqua. Guardo fuori dalla finestra. Comincia a far luce. Sono a Vienna, nessuno sta gridando. Era solo un sogno, mi dico.”
Waris Dirie è diventata ambasciatrice Onu nella campagna chiamata “Face to Face”, realizzata al fine di sradicare questa pratica odiosa che riguarda 200 milioni di donne nel mondo. Ha creato una sua Fondazione che ricerca fondi a questo scopo, la “Desert Flower Foundation”.
E continua a ricevere premi e onorificenze per la missione che si è data.
“Io lo considero semplicemente un crimine contro l’umanità, contro povere bambine innocenti…a praticarlo non sono solo le comunità musulmane, ma anche le comunità cristiane, ad esempio in Egitto, in Mali e in Etiopia. Ha a che fare con l’idea di reprimere e opprimere le donne, non con la religione. E l’oppressione femminile è un fantasma che si agita in tutte le società del mondo. Lo scopo della mia Fondazione è proprio quello di alzare il livello di consapevolezza e conoscenza di questo fenomeno.” (R.M.)