Ketty La Rocca
Tra i precursori della poesia visiva, componente del Gruppo 70 (avanguardia fiorentina), Ketty La Rocca, a partire dagli anni Sessanta affronta, in maniera forte e anche ironica, tematiche attinenti al ruolo della donna nella società neocapitalistica, denuncia attraverso i collage la condizione e la mercificazione oggettuale dell’immagine femminile, (s)oggetto di consumo.
A poco a poco, l’indagine dell’artista si sposta sempre di più sull’essenzialità della parola e l’ambiguità del linguaggio. Ketty La Rocca mette sotto accusa il linguaggio standardizzato, omologato e impoverito dalla società tecnologica e di massa; un linguaggio trasformato dalla televisione, dai cartelli pubblicitari, dalla radio. La comunicazione diventa quasi automatica, fatta di parole, oggetti, figure, comportamenti che spesso sono alienanti. Lo strapotere dei mass media e della tecnologia aumenta a dismisura e una delle conseguenze di tale situazione è proprio l’impoverimento del linguaggio e la pigrizia mentale. Ci si trova in una società, in cui l’uomo occidentale sviluppa la capacità di agire senza reagire (come affermava McLuhan), si assiste a una sua non partecipazione, a un’alienazione alla vita.
A cominciare dagli anni Settanta, Ketty La Rocca considera compiuta la sua indagine sui limiti del linguaggio scritto e parlato e si focalizza su territori non verbali. A un linguaggio ormai privo di senso, l’artista contrappone la semplice comunicazione del corpo. Mediato dalla fotografia, dal video e dalla parola, il corpo diventa campo d’indagine per l’artista. Si cimenta nell’esplorazione della propria fisicità, concentrandosi su un percorso più personale e inizia una riflessione sul linguaggio dei gesti, che va ad accompagnare e spesso a contrapporsi alle parole, al linguaggio verbale. Riscopre e propone la semplicità e l’espressività del gesto primario. Il doppio codice verbo-visivo domina la comunicazione artistica. La riflessione sul significato del linguaggio appare immediatamente una costante e si svolge attraverso la contrapposizione tra immagine e registro verbo-linguistico, tra la perdita di significato e la ricerca di un nuovo significato, di un nuovo messaggio più autentico. Al linguaggio, vuoto di senso, di una cultura distorta dalle convenzioni del mercato e del costume, l’artista contrappone il semplice linguaggio delle mani, basato su una volontà di comunicazione istintuale e emotiva.
Il 1971 sembra essere un anno di snodo per l’artista, in cui l’immagine visiva ha la meglio sulla parola, e la comunicazione corporea su quella linguistica. In questo frangente, realizza il libro In principio erat e l’anno successivo, insieme al video Appendice per una supplica, vengono presentati entrambi alla 36° Biennale di Venezia.
Il libro di La Rocca è composto da fotografie, esclusivamente in bianco e nero, e parole. Una contaminazione dei linguaggi. La parola appare vuota, priva di valore comunicativo, annullata e ridicolizzata, evidenziando la sua debolezza di fronte alla forza delle immagini. C’è un’incompatibilità tra la ricchezza del linguaggio gestuale e la banalità del linguaggio scritto. Sembrano parole in trappola, intrappolando a loro volta i pensieri dell’artista. Proprio perché incompleti, richiedono una profonda partecipazione da parte del lettore.
La Rocca parla di “delusione dell’immagine”, ovvero la convinzione che anche l’immagine subisca un esaurimento da parte della parola, ed è il motivo per cui inizia a scrivere sulle stesse immagini. Attraverso la propria calligrafia, l’artista conferisce una specie di rigenerazione all’immagine, facendo riaffiorare una parte del proprio inconscio e riabilitando in senso autentico, perché individuale, la traccia che può lasciare l’immagine di sé .
Gesto e parola, corpo e linguaggio. Questo nucleo costituisce il filo di Arianna che bisogna seguire per comprendere l’arte di Ketty La Rocca. (C. G.)