Elettroshock alla diversità
Molti credono che con la chiusura dei manicomi anche l’elettroshock1 non si sia più praticato. Come se le due cose fossero legate. Invece in Italia si pratica ancora. In modo diverso ma si pratica. L’elettroshock non è fuorilegge. E se Emily Dickinson (1862 n. 435) scriveva: “Molta follia è saggezza divina/ per chi è in grado di capire/Molta saggezza pura follia/Ma è la maggioranza in questo, in tutto, che prevale./Conformati: sarai sano di mente./Obietta: sarai pazzo da legare/ Immediatamente pericoloso e presto incatenato./”… nessuno l’ha mai ascoltata. Sostiene qualcuno che l’elettroshock è una pratica violenta, eppure a volte funziona. Davanti a questa frase Franco Basaglia animato da una nuova concezione di salute mentale e riformatore della disciplina psichiatrica in Italia ribatteva: «È vero, l’elettroshock funziona. È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci la radio riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. E anche in quella singola volta che la radio si aggiusta, non sappiamo perché».
Quante volte il genio e la bellezza di tante donne sono stati incatenati, imprigionati, tartassati, schiacciati, dietro al nome di malattia. Anche moltissimi uomini certo, lo stesso Ernest Hemingway negli anni trenta subì una ventina di trattamenti elettroshock. Hemingway morì suicida il due luglio 1961 con un colpo di fucile. O Antonin Artaud, teatrante, attore, regista, drammaturgo, teorico e potrei aggiungere profeta che subì cinquantuno cadute in coma da elettroshock e morì stroncato dopo essersi iniettato una dose letale di sedativi. Ma a noi donne il male oscuro, la depressione, la schizofrenia, la bipolarità appartengono da sempre. O ce le hanno fatte appartenere. Come una lettera scarlatta quasi. A noi donne in particolare, si. Isteria d’altronde deriva dal greco hyster, utero. Quante donne, quante genie che trovavano il senso della vita Altrove, nella diversità (d’altronde Focault diceva che “il senso è Altrove”) sono state per questo, non capite, ma punite. Hanno subito percorsi terapeutici con terribili scariche elettroshock, sono state rinchiuse in manicomio, sono state marchiate fino alla propria fine. Alla fine. Giunta o scelta che sia.
Non possiamo non pensare a Janet Frame, un’anima rinchiusa in ospedale, che molti ricordano per aver scritto “Un angelo alla mia tavola” film diretto da Jane Campion nel 1990. Un libro bellissimo e denso. Un capolavoro. Sì, Janet, fu due volte nominata per il Nobel alla letteratura, ma come fu la sua vita? Frame nasce in Australia nel ’24 in una famiglia molto povera ed è la più piccola di cinque: è una ragazzina solitaria che a scuola sogna di esser accolta dai suoi compagni, di farsi degli amici ma non ci riesce. Sogna di integrarsi, giocare a palla e di girare con loro la corda, ma nessuno mai l’inviterà a farlo. È sporca e soprattutto è diversa da loro: la sua famiglia è così povera che abita una piccola baracca desolata.
Ma un giorno accade un miracolo. Una sua compagna le presta un libro e questo diventa per lei una scoperta e un salvagente: il secondo volto della realtà, accanto al suo, l’immaginazione. Si apre a Janet un nuovo sguardo sul mondo: ora non è più così sola perchè l’esperienza del leggere e la pratica della fantasia sono la strada per ritrovare se stessa. Da quel momento la sua vita si dispiega veloce di lettura in lettura, prestito dopo prestito dalla biblioteca scolastica, fino a quando, accade quello che, io che insegno, chiamo un altro miracolo. Sì, perché incontrare la tua guida è sempre un miracolo. E a Janet accade. Trova un maestro Un uomo la vede e non la guarda solamente, come la scolara sporca e povera: si avvicina curioso ai suoi temi di scuola, perché “credeva che ogni bambino avesse qualche dono particolare e spettasse a lui, come maestro, dare a ognuno l’opportunità di scoprirlo”. È incredibile trovare qualcuno così. A chi è capitato, come a me, sa che è un vero colpo di fortuna. Come ci ha detto poeticamente Danilo Dolci: “C’è pure chi educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato.”
Ma non basta però: gli anni di formazione, trascorsi nella povertà e nell’isolamento lasciano il segno e Janet rimane una ragazza timida, introversa, che fa una gran fatica a relazionarsi, non riesce a scrollarsi di dosso quell’atteggiamento che ha sempre subìto dal mondo, non riesce a staccarsene: è la “diversità”, la cicatrice di quella mutilazione sociale che la società le ha inflitto. Un marchio, una predisposizione, una scelta, una condanna, scrive Janet “[…] e quando quell’idea di «diversità», datami dagli altri, in un periodo in cui non conoscevo me stessa ed esitavo a farlo perché non ero un tipo introspettivo, venne rafforzata dall’osservazione della Signorina Gibson, finii con l’accettare quella diversità; anche se nel mondo della scuola, essere diverse significava essere strane, un po’ «matte».” Finita l’università lascia la famiglia e inizia a lavorare come maestra, ma la sua estrema fragilità si acutizza: l’immenso dolore per la morte di una sorella annegata e la lontananza dal suo mondo, la gettano nella disperazione totale: tenta il suicidio. Le consigliano di farsi curare e nel 1946 viene ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Doveva restarci solo 3 giorni. Il ricovero sarà supplizio di 8 anni fatto di più di 200 elettroshock. Riuscite a pensarci? Io no. Io non ce la faccio. Una “esecuzione” lo definisce Janet. Esiste, per chi volesse leggerlo, un vero e proprio diario d’accusa e di resistenza umana che racconta gli anni d’internamento di Janet: “Dentro il muro” edito da Neri Pozza nel 2013. Janet cerca di collaborare: in manicomio, si lava, mette la cera, riordina la camera, rispetta i suoi turni, tutto ciò per evitare il trattamento del mattino nel caso in cui fosse disobbediente. Solo che il trattamento arriva. Sempre. Inesorabile. Sempre comunque. Lei si scervella a capire perché o che colpa abbia per meritarselo.
Poi viene fissato il giorno per la sua lobotomia. Un po’ come attendere la sedia elettrica in cui ti bruciano il cervello. Non so, forse peggio. Ti tagliano le connessioni con la parte della corteccia prefrontale del cervello: quella coinvolta nel comportamento emozionale, nella motivazione, nell’attribuzione di valore a cose, persone, eventi, nella valutazione del rischio e nel comportamento sociale. Dovrai vivere senza le emozioni. Ma all’ultimo, proprio come nei film quando arriva la grazia di qualche procuratore, arriva un nuovo dottore che scopre che lei ha vinto il premio letterario Hubert Church per la prosa con il suo primo volume di racconti “The Lagoon and other stories” (dated 1951, released 1952). E allora annulla l’intervento e prepara le sue dimissioni dall’ospedale.
È l’ennesimo miracolo a salvarla: un libro, nuovamente, come quando era piccola e di nuovo una persona, sua sorella. Negli otto anni di manicomio infatti Janet non aveva mai smesso di scrivere e sua sorella aveva raccattato ogni pezzo di carta o foglietto possibile e immaginabile, li aveva conservati e poi consegnati a un editore. I racconti di Janet la salvano dalla lobotomia. Solo 24 ore dopo sarebbe stata la fine! Il medico le dice: «Ho deciso che lei resti com’è. Non voglio che cambi », non la reputa più una persona da manicomio adesso: non è più schizofrenica, solo una persona diversa, che ama stare da sola. Ma grazie! Anzi quando le dice che può andare aggiunge: “Se non ha voglia di socializzare, non socializzi”. E Janet allora proverà a vivere. Con quel carico sulle spalle. Un carico messo da altri. “So che alla mia età, allora poco più di trent’anni, la maggior parte delle donne avrebbe avuto l’aiuto di un compagno, di un marito, di un amico. So anche che non esiste «la maggior parte delle donne» e che non essere una di loro, per mancanza d’inclinazione o perfino per incapacità non è un fallimento personale: il fallimento sta nelle aspettative degli altri”.
A Janet Frame la scrittura ha salvato la vita. Ma per Sylvia non è stato sufficiente. Per lei lo spazio era angusto, era tutto troppo piccolo. Quando si legge Sylvia Plath sembra sempre di essere una sua amica. “Il mio problema? Non abbastanza libertà di pensiero.” Anche lei era diversa, troppa forse per quei tempi. Quei tempi la costringevano, la schiacciavano. Che la mattina dell’11 febbraio del 1963 Sylvia Plath preparò la colazione per i suoi due bambini, ancora addormentati, nel suo appartamento di Londra, gli preparò fette di pane imburrato e latte sul comodino, spalancò le finestre della cameretta, poi si recò in cucina, sigillò porte e finestre con del nastro adesivo, scrisse l’ultima poesia “Orlo”, apri il gas, infilò la testa nel forno e si tolse la vita, è la cosa che a tutti è rimasta più impressa. Lo sa anche chi non ha letto “Lady Lazarus”, “Le muse inquietanti” o altre sue poesie.
E neppure lei, che allora aveva solo 31 anni, poteva immaginare che dopo la sua morte, sarebbe stata considerata una delle voci poetiche più potenti del Novecento e che il suo gesto sarebbe diventato il simbolo delle rivendicazioni femministe di mezzo mondo. Non sapremo mai come davvero arrivò a quel gesto. Ho provato a cercarla, da sempre, nelle sue parole.Fino alla fine della sua esistenza, la Plath si è sentita un’equilibrista su un filo: da un lato la volontà di realizzarsi come scrittrice, dall’altro la necessità di incarnare il rigido schema di modello di moglie e madre chiuso degli anni Sessanta. Quell’asfissiante mondo perfettamente descritto da Richard Yates nel bellissimo “Revolutionary Road” o magistralmente interpretato da Julianne Moore in “Lontano dal Paradiso”. Fu un periodo terribile per le donne, specie se artiste, ma non solo, anche solo se intelligenti o ribelli. Le lotte per l’emancipazione femminile non erano ancora iniziate e vigeva un rigido conformismo, con precisi schemi sociali: ineludibili. Era facile, facilissimo precipitare in una crisi depressiva, che a quei tempi veniva curata a suon di valium e elettroshock, come la stessa Plath ebbe modo di sperimentare.
Poco prima di suicidarsi Plath ha scritto un romanzo profondamente autobiografico, “La campana di vetro” dove racconta di sé attraverso gli occhi di una talentuosa studentessa oppressa dalla società newyorkese degli anni Cinquanta. Questo libro è ancora attualissimo: benché le condizioni sociali di noi donne oggi siano mutate, non lo è ancora abbastanza quello spazio angusto e soffocante in cui dobbiamo ritagliarci un varco nel vivere divise tra lavoro e famiglia. Il grido di Plath è potente e invita a non arrendersi ma a reagire. Perché nessuna ceda a farsi ingabbiare e annientare dalla campana di vetro che la circonda, qualunque essa sia.
Quando si legge Sylvia Plath sembra subito di conoscerla. Sembra un’amica che ti sta seduta accanto. Sembra di stare lì con lei, nella sua cucina. Il suo mondo è il nostro, perché ci parla di cose semplici e vere: dalla sensazione che si prova avendo un dito tagliato mentre si affettano le verdure al modo con cui puoi tenere per mano un bambino, all’aria di festa in casa il giorno dopo Natale. Tanti piccoli particolari, esperienze quotidiane a noi vicine, che appartengono al vissuto di ognuna. Sylvia faceva la mamma di giorno e scrittrice di notte. Sono due cose che insieme non si potevano fare. Per riuscirci crollò e subì una quantità di elettroshock pazzeschi. Che non la salvarono dalla morte. Non era una radio rotta lei. Non si era inceppata. E quegli scossoni non la fecero ripartire. No.
Non voglio parlare della vita di Alda Merini e dei suoi elettroshock. Non voglio usare la sua storia. È anche troppo raccontata. A molte amiche quando parlo di Alda Merini, che io adoro, (l’anno scorso ho avuto la fortuna di vedere il suo “Magnificat” portato in teatro da una bravissima Arianna Scommegna – se vi capita non perdetelo!) e la prima cosa che mi dicono è che era una poetessa pazza: – ah si, quella che è stata un sacco di anni in manicomio.
Alda aveva una mente che viaggiava a una velocità diversa e su binari diversi la maggior parte delle volte. Era così consapevole della grandezza della sua differenza, che diceva che prima di parlare con gli altri bisogna addormentare la propria belva interiore. Lei che era ‘ammalata di sapienza’, lo sapeva. Sapeva che si sarebbero spaventati. Lei non cercava di conformarsi: “Ogni giorno cerco il filo della ragione, ma forse non esiste o mi ci sono aggrovigliata dentro.” “Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta…”. Ma l’avrebbe presto imparato, che l’avrebbero giudicata pazza. Lei stessa non aveva paura a nominare la follia. “La pazzia mi ha visitato almeno due volte al giorno”.
La storia della Merini e della sua follia è quasi leggenda ormai in Italia. Ma dimentichiamo spesso, quando pensiamo a lei, che come lei ce ne sono state tante. Si parla spesso della sua follia, a volte sembra quasi un po’ come gli spaghetti, la pizza e il caffè…un marchio italiano. “La depressione – diceva- è un discorso puro sulla creatività.” Alda era amica della sua patologia. L’ha spremuta fino in fondo all’osso, l’ha dissanguata. Lei che non poteva vivere in superficie perché la inquietava, anche se il profondo la uccideva. Preferisco ricordarla per le sue parole: “solo quando sto morendo sono particolarmente in forma”. Ahahah!! Una grande! Ci ha lasciato pagine e pagine di profonda Bellezza. Questo solo riesco a ricordare di lei. E anche pagine e pagine di cruda Verità. Emily Dickinson, così diversa da Alda, da Janet, da Silvia, da tutti, ma altrettanto geniale, aveva compreso anche questo:
Morii per la Bellezza, ma ero appena
composta nella tomba
che un Altro, morto per la Verità,
fu disteso nello spazio accanto.
Mi chiese sottovoce perché ero morta
gli risposi «Per la Bellezza».
«E io -per la Verità- le due cose sono
una sola. Siamo Fratelli» – disse.
Così come Parenti incontrati nella notte
parlammo da una stanza all’altra
finché il Muschio non raggiunse le nostre labbra
e ricoprì i nostri nomi.
Nel 1950 Silvia Plath scrive nei suoi diari: “Magari un giorno tornerò a casa battuta, sconfitta. Ma non finché riuscirò a trasformare il mio cuore spezzato in racconti, la mia sofferenza in bellezza” . Ci sono riuscite. Tutte quante. Anche se hanno tentato di ingabbiarle, annichilirle, bruciarle. Come le streghe, solo in un’altra forma.
Prima di infilare la testa nel forno, mentre i bambini dormivano quieti, mentre era lì, sull’Orlo, tra la vita e la morte, mentre era lì, sospesa, ancora di qua, ma con una parte di lei già di là, scrisse:
La donna è la perfezione.
Il suo morto
corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
Dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.
Donne vissute e poi morte per la Bellezza e per la Verità. Indimenticabile bellezza ed eterna verità. Sono Sorelle. Siete ancora qui. Nonostante tutto quello che vi hanno fatto.Non vi dimenticheremo. Mai. [R.F.]
Fonti:
Un angelo alla mia tavola di Janet Frame
Parleranno le Tempeste-Poesie scelte – Gabriele Capelli editore
Rainews/Parleranno le tempeste di Luigia Sorrentino 31/10/2017
Doppiozero/Janet Frame: la vita negli oggetti di Anna Toscano 12/06/2017
https://www.ccdu.org/comunicati/elettroshock-racconto -Colin Taufer : L’editoriale di Colin Articolo originale: http://www.psychsearch.net/colinscolumn2/
Note:
1_Non tutti sanno che il medico che ha inventato l’elettroshock, in barba al giuramento d’Ippocrate, è lo stesso che durante il fascismo ha ideato anche la “spoletta a scoppio differito”, proiettili-bomba che hanno mietuto migliaia di vittime. Un medico inventore di morte possiamo senza alcun dubbio affermare.