Quando a surfare erano le Dee: le donne sulle onde già dal XIV secolo
Quando navigatori ed esploratori, come Sir James Edward Alexander, giungevano al largo dell’Africa e in Guinea, la prima cosa che vedevano erano indigeni che nuotavano lasciandosi scivolare sulle onde con delle tavole di legno. Lo stesso Jack London, in seguito ai suoi viaggi nell’arcipelago hawaiano, scrive che il surf era praticato da tutta la popolazione, senza distinzione di classe e genere, uomini, donne, vecchi e bambini cavalcavano le onde in piedi a queste grandi tavole. Le leggende hawaiane e polinesiane sono ricchissime di figure donne o Dee che sulle loro tavole di olo o alaia, sfidano con abilità i loro avversari uomini o le stesse forze della natura: una di queste, Hinarau’rea, sfuggì uno squalo bianco volando come una scheggia a bordo di una rudimentale tavola di legno! Una leggenda hawaiana narra che Mamala, sia stata la prima whaine surfista.
Wahine è la parola hawaiana e māori che significa donna ma può anche indicare una principessa dell’Isola delle Hawaii o una Dea polinesiana. Mamala era una principessa a capo dei Kupua. I Kupua sono semidei con capacità di cambiamento di forma. Grazie alle loro abilità trasformative e ai poteri soprannaturali, sono descritti in vari modi, a volte come veri e propri eroi, altre come semplici imbroglioni. Mamala era una bella donna, nota per le sue eccellenti doti di surfista, in grado si assumere le sembianze di lucertola o coccodrillo. In vero pare potesse assumere qualsiasi forma desiderasse: si dice anche uno squalo, tanto che aveva per marito un Dio squalo, Ouha. Grandi folle si accalcavano sulla spiaggia di Honolulu per ammirarla mentre cercava di cogliere le onde più aspre della baia. Il mito (e il gossip) vuole che Mamala lasciò Ouha per un altro capo, Honokaupu. Ouha allora, a causa della sua vergogna, rinunciò alla sua connessione con la sua parte umana e divenne solo animale. Restò Squalo, anzi Lo Squalo, quello bianco, il nemico più pericoloso dei surfisti della costa tra Waikiki e Koko Head. Mamala non è l’unica illustre antenata delle wahine, parola con cui s’identificano tutte le donne surfiste nella lingua hawaiana. Pensate che nel 1905 una tavola da surf è stata ritrovata nella tomba della principessa Kaneamuna risalente al 1600. Ma pare che alle Hawaii si facesse surf già nel 1300-1400: si narra che i regali Ali’i, King Kamehameha e la sua regina Kaahumanu, avessero surfato fianco a fianco. Ma la storia delle donne, Dee o meno che siano, alla fine si assomiglia sempre. Si racconta che alla fine del XIX secolo vi fosse una principessa, Kaiulani, abilissima surfrider, che fu costretta ad abbandonare la sua terra per venir educata in Inghilterra. Kaiulani se ne andò e al suo posto arrivarono i colonizzatori a portare la loro cultura occidentale. Le donne così vennero escluse dal surf per secoli, sia in patria che in occidente, e le numerose storie hawaiane e polinesiane che raccontavano di divinità femminili e donne alle prese con il surf divennero leggenda..
Il surf è stato portato sulle coste californiane agli inizi del novecento e si è trasformato nello sport più popolare. Negli anni ’50 divenne un vero e proprio surfin’ lifestyle, la cui bandiera erano i Beach Boys, ma il suo apice lo conobbe negli anni ’70 e ’80 come si vede in molti film cult quali, ad esempio, “Un mercoledì da Leoni”. Per decenni il surf, come molti altri ambiti, è rimasto impermeabile all’incursione della presenza femminile. Le donne nella versione occidentalizzata di questo sport sono state escluse, al massimo ammesse in qualità di “groupies” o “surf-bunnies”, a trascorrere giornate come soprammobili, in bella vista, tra una spalmatina di crema e una risatina. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Le “pioniere” grazie alle quali il surf, simbolo di machismo all’ennesima potenza, è stato accessibile anche per tantissime ragazze di oggi, furono Faye Baird Fraser a San Diego e Mary Ann Hawkins in California negli anni ’20.
Furono loro a osare, a sfidare il predominio maschile in questo sport. Sull’altra costa, quella del Pacifico, la prima fu Isabel Letham, che a quindici anni fu scelta in una gara a Manly Beach in Australia. Ci sono voluti molti anni prima che il discorso di pari opportunità facesse breccia nelle menti maschili dei muscolosi surfisti. “Le donne non dovrebbero fare surf, si rendono soltanto ridicole” sono le parole di un campione come Nat Young. Guardate la foto sotto. No comment.
Fino agli anni ’60 quando in Europa le donne nel surf erano ancora considerate dei casi rari, Gwyn Haslock già surfava. Quando lei era giovane le tavole da surf erano pesantissime, molto alte e larghe. Così Gwyn un giorno se ne mise in testa una e a fatica la portò fino alla spiaggia. Iniziò così. Oggi ha 73 anni e surfa ancora. Cinque decenni dopo naviga quasi ogni giorno. Gwyn Haslock ogni mattina s’immerge nelle gelide acque invernali della Cornovaglia. Che mito la Gwyn! Col freddo che fa alle sue latitudini che, diciamocelo, non sono mica Honolulu o la California! Il luogo preferito da Gwyn per fare surf è Towan Beach, dove sfida le fredde acque di dicembre, catturando le onde più belle senza farsene sfuggire una. Gwyn paragona la sensazione di surf al camminare sull’acqua. Si ritiene che sia la più anziana surfista femminile e non ha intenzione di fermarsi. A volte chi la guarda sulla spiaggia con la sua tavola da surf commenta: ‘Quella vecchia signora cosa farà?’ Poi vedono che può cogliere un’onda e dà loro l’ispirazione.
Gwyn è sempre stata indipendente e non ha mai permesso che stereotipi di genere o barriere di età si mettessero tra lei e quello che amava fare. Vestita con la muta, ogni mattina carica la tavola, attaccandola sul tettuccio della sua piccola auto rossa, e se ne va in spiaggia. Surfò la prima volta negli anni ’60 quando era la sola donna in gara e doveva entrare nelle categorie maschili.
Dall’altra parte del mondo intanto un’altra donna, molto più giovane, surfa. È Ishita. Ishita andava sempre in spiaggia col suo fidanzato, Tushar, a vedere le onde dell’Oceano e un ragazzo tedesco fare surf. Ma mai avrebbe immaginato, la prima volta che lo vide, che un giorno quella tavola l’avrebbe usata anche lei. Ishita non sapeva che da lì a pochi anni la sua vita sarebbe cambiata radicalmente proprio grazie al surf e grazie a due insegnanti di yoga americani che glielo avrebbero insegnato proprio su quella spiaggia.
Quando ha provato per curiosità a solcare le onde con una tavola, in quello stesso istante, Ishita si è resa conto di essere diventata la prima donna surfista indiana. In India ci sono più di 7 mila chilometri di costa. Gli abitanti del villaggio in cui Ishita andava a scuola erano terrorizzati dall’acqua dell’oceano. Gli stessi pescatori, che passavano giorni interi in mare aperto, non sapevano nuotare. Imparare a surfare è stata una grandissima sfida, personale e sociale. Ishita si è innamorata di questo sport dalla prima volta che è salita su una tavola e non ha voluto rinunciarvi, mai più. “Non volevo diventare un esempio per gli altri o rompere le regole. Mi divertivo e basta”. Lei voleva solo essere se stessa e sentirsi libera. Pian piano molti suoi amici si sono avvicinati incuriositi e Ishita ha iniziato a insegnare loro come cavalcare le onde, diventando inconsapevolmente la loro istruttrice. Una volta terminati gli studi, Ishita ha capito che non voleva tornare a lavorare in città. Nonostante i suoi genitori non approvassero Ishita, insieme al fidanzato, ora marito, ha deciso di aprire una scuola di surf nella città di Udupi, sulla costa occidentale indiana. “Oggi sono felice di poter dire che molte persone vengono nella nostra scuola da tutte le parti del Paese” – dice orgogliosamente Ishita. In un paese come l’India, in cui vivono più di un miliardo e 250 milioni di persone, era difficile per Ishita immaginare di poter ottenere un primato. Essere la prima in qualcosa. Eppure ci è riuscita.
La prima volta invece in cui io mi sono imbattuta in una storia di surf è stato ascoltando la dolorosa storia accaduta a un’atleta alle Hawaii. Purtroppo un evento tragico, non una storia bella. Era il 2003 quando Bethany Hamilton, tredicenne e americana, mentre si allena viene attaccata da uno squalo tigre nelle acque di Kauai. Chissà se era Ouha che voleva ancora vendicarsi. Si salva per miracolo ma le viene amputato un braccio. Quello sinistro. Bethany Hamilton, non si arrende però. Come Gwyn e Ishita ama il mare, le onde e non rinuncia a cavalcarle. Oggi è un esempio di coraggio e determinazione per tutti, non solo per le tantissime surfiste donne. Lo è per tutti coloro che hanno subito una perdita: in seguito al terribile incidente non si è fermata ma ha perseguito la immensa passione per questo sport, arrivando sul podio di numerose gare proprio come campionessa.
Le splendide figure di queste esperte surfiste, che compiono straordinarie acrobazie e coraggiose virate, sono il frutto di dure conquiste in un ambito che, come tanti altri, ieri e ancora oggi sono considerati di esclusiva maschile. Ma il vento ora soffia a favore, e noi donne finalmente abbiamo ripreso a cavalcare l’onda, come le Dee che eravamo e di cui le leggende raccontano. (J.F.)
Fonti e Bibliografia consigliata:
Elogio del Surf di Madeira Giacci (Castelvecchi, 2006)
The Guardian -Britain’s silver surfer di Sarah Lee and Matt Fidler 15 Sep 2016
La prima surfista donna dell’India in https://www.tpi.it/2015/09/04
Wahine and the waves: le ragazze fanno surf di Veronica Tosetti, Flavia Sorrentino in Soft Revolution 13 mag 2014