È appena uscito nelle sale italiane il bel film su Mary Shelley della regista Haifaa al-Mansour, saudita. È il suo secondo lungometraggio (il primo era la La bicicletta verde, 2012), il che risulta stupefacente essendo lei nata in un paese dove il cinema è proibito. Di Mary, il film narra gli anni della primissima giovinezza, collocandola, com’è giusto, nel rango delle ragazze prodigiose. La storia è arcinota: Mary è figlia della celebre Mary Wollstonecraft, precursora del femminismo e prima, nel mondo anglosassone, a mettere per iscritto una Rivendicazione dei diritti della donna (1792). La madre muore pochi giorni dopo il parto e Mary viene allevata dal padre William Godwin, anch’egli filosofo libertario e letterato, che la alleva fornendole una solida istruzione classica (a cui le bambine di inizio ‘800 non avevano normalmente accesso) e trasmettendole in modo vivissimo la presenza della madre assente. Di cui Mary seguirà le tracce fuggendo di casa, all’età di 16 anni, con lo sfolgorante Percy Bysshe Shelley, poco più grande di lei, già famoso poeta, provvisto di una moglie con la quale non vive e di un figlio.
Questo lo sfondo della vicenda. Quello che avvince nel film è il punto di vista della protagonista, che la regista tiene saldamente in mano e usa per valutare tutti i fatti della storia e le azioni dei personaggi. A torto sui cartelloni viene presentato come film romantico e sentimentale: è invece una riflessione molto seria sul dolore che accompagna la creatività artistica di una donna e la costruzione di una forza che le permetta di fronteggiare le relazioni con gli uomini. E che uomini! Esponenti di una nuova generazione che tenta di vivere ribellandosi alle rigide convenzioni che opprimono i rapporti sessuali e interpersonali. Totalmente incapaci di comprendere che la loro seducente e sedicente identità rivoluzionaria poggia sul prezzo esistenziale pagato dalle donne che vi partecipano: il marchio di reiette e l’esclusione sociale. Alcune, come la prima moglie di Shelley, suicida, pagano il prezzo della vita.
La prima perdita subita da Mary in conseguenza della sua scelta è il sostegno del padre. In questa occasione William rinnega le proprie idee libertarie e rivela la sua ambivalenza nel ricordare la prima moglie: da lui descritta come coraggiosa guerriera ma anche come povera donna perseguitata e torturata dalle sue rovinose passioni. Ma Mary, decidendo comunque di andarsene con Shelley, porta con sé l’intuizione della sua precoce vocazione di scrittrice e l’integrità delle sue convinzioni e del suo fantasticato rapporto con la madre morta. Sfuggendo al radicalismo ideologico dei suoi compagni di avventura e mantenendo ferma la capacità di esporsi al vaglio e ai cambiamenti dell’esperienza. Nell’intensità della passione per Shelley, cifra del suo effettivo coraggio di sperimentare la vitalità del suo desiderio, Mary saprà trarre lo slancio della sua libertà e fedeltà a se stessa: prima prendendosi il tempo del lutto per la morte della prima figlia neonata (“non sono pronta”, risponde al compagno che tenta di consolarla e la invita a dimenticare); poi decidendo di interrompere la frenetica vita bohémien adottata dalla coppia e rischiando di perdere l’amato. In questa prima separazione da Shelley, che non la cerca per molti mesi, Mary trova quello “spazio di solitudine dove le voci (le voci assordanti dei poeti maschi?) e le parole degli altri si spengono” e può far affiorare la sua vera voce. Dopo vari tentativi falliti, riesce a portare a termine il suo Frankenstein, sperimentando, e cercando con tutte le sue forze di esprimere, la consapevolezza che ogni abbandono ci espone al rischio della morte psichica (come gli studi psicanalitici scopriranno nel secolo successivo).
Quindi Frankenstein non solo romanzo gotico o antesignano della fantascienza, ma racconto del percorso di angoscia e fatica che la creatura appena nata compie, disperatamente e alla cieca, quando privata di ogni relazione di cura. Quando privata, come dice il ridivenuto amorevole padre di Mary, “della parola gentile che il suo creatore non le ha mai rivolto”. Suggestiva visione di Mary Shelley come figura destinata a presentire l’irrompere dei terrori dell’inconscio! Di qui proviene la libertà femminile autentica, che scaturisce dall’essersi misurata a fondo con le radici della vita e della morte. Così si forma quella solida forza che le permette di affrontare un abbandono e una perdita senza cedere, oltre allo già sperimentato esilio sociale, alla morte interiore dell’esclusione da se stessa.
Una nota finale: scorrendo le recensioni del film su Internet mi sono imbattuta, con sorpresa e divertimento, nella rabbia virulenta di alcuni recensori uomini, scandalizzati dalla rappresentazione di grandi poeti come Shelley o Byron (a sentir loro) descritti come egoisti e superficiali. No, sono soltanto uomini affogati nel narcisismo trionfante di un sistema politico-sociale che, pur con le prime crepe, si compiace del suo potere assoluto sulle donne. Buon segno, comunque, significa che il femminismo, quando parla di vera libertà femminile e non di ritrita tiritera sui diritti, ha ancora il potere di sconvolgere. Brava la nostra Haifaa, ha fatto centro! (C.S.)