L’ineffabile tenerezza del padre
Come molte bambine della mia generazione, quella dei primi anni ’60, sono cresciuta senza cure paterne. La cura e la condivisione dell’intimità con i bambini erano per lo più affidate alle donne, madri, nonne, zie; spesso mancava col padre qualsiasi tipo di contatto fisico e, tanto più per una bambina, la possibilità di avere un’attività in comune con lui: nel mio ambiente, la Bologna operaia di quegli anni, molti padri praticavano la pesca e la caccia, ma certo a nessuno veniva in mente di trasmettere queste passioni a una figlia.
Perciò la visione del film della regista americana Debra Granik, Senza lasciare traccia, mi ha provocato un perdurante struggimento. Il film si ispira ad un romanzo tratto da una storia veramente accaduta e si inserisce nel filone della wild life, la vita negli spazi aperti e selvaggi, molto frequentato dal cinema americano. Sono vicende che trapelano dalle cronache, anche recenti, quindi sperimentate nella realtà, e trovano una base simbolica nella storia e nel pensiero americani del XIX secolo, come la saga dei pionieri che ha dato origine al genere western e le opere dei filosofi Emerson e Thoreau, che coniugavano la libertà della neonata nazione alla purezza ritrovata nella comunione con la natura dei grandi spazi provvisti dal nuovo continente.
Già in apertura il film ci catapulta dentro la vita selvatica, in mezzo a una folta foresta, di un uomo adulto e di una giovanissima ragazza, che presto scopriremo essere padre e figlia. I due mostrano di possedere una competenza e un’abilità straordinaria nel sopravvivere all’addiaccio: costruiscono caldi ripari, sanno come ricavare acqua da bere, trovare o coltivare il cibo, accendere un fuoco per scaldarsi e cucinare. Nell’intimità della tenda dove dormono insieme, veniamo a sapere di una madre morta, tanto tempo prima da non consentire alla ragazza di ricordarla. Come nelle scrittrici inglesi dell’800, è spesso l’assenza di una madre che caratterizza l’apparire di un’eroina. Thomasine, detta Tom, tutto ha appreso dal padre, veterano traumatizzato in una delle brutte guerre combattute incessantemente dal suo paese: dalla seconda guerra mondiale in poi non c’è più stata nessuna generazione di uomini statunitensi (e ora sarà così anche per le donne) che non abbia partecipato a una guerra. Un quadro così preciso e vasto fuoriesce dalla semplice immagine di padre e figlia che vivono nel bosco.
Incidentalmente intercettati dai servizi sociali a causa di una svista, forse volontaria, della ragazza, vengono sottoposti ai controlli di rito e condotti a vivere in una zona rurale, dove il padre Will può lavorare all’aria aperta in una fattoria e Tom può conoscere dei coetanei e si appresta ad andare a scuola. Ma dura poco: Will è incapace di reggere la convivenza con altre persone, e presto trascina la figlia, non troppo convinta, in una fuga verso boschi più lontani.
La fuga di Will non dipende da un’astratta e ideologica negazione della vita degli altri, quelli che vivono in base al contratto sociale: dal suo corpo sprigiona, con una forza somigliante ad un grido muto, il suo bisogno di essere solo. Totalmente riempito dall’ingombro lasciatogli dall’indicibile vissuto in guerra, non può sopportare altri stimoli al di fuori del rapporto con la figlia. E necessita del sostegno dell’ambiente naturale: vivere nei boschi significa in modo letterale, fisico, il suo lavoro estremo di sopravvivenza interiore.
E’ questo che risulta così commovente e intenso tra i due, il rapporto basato sull’essenziale, sui gesti che sostanziano la sopravvivenza quotidiana, con parole rade che esprimono una capacità profonda di essere l’un l’altro vicini e desiderosi di curarsi a vicenda, anche con il contatto fisico e gli abbracci. Lontanissimo dal malessere di un rapporto simbiotico, come è stato letto da alcuni critici.
Dopo una grave caduta di Will, soccorsi e accolti da una comunità di gente che vive nei camper in mezzo al bosco (“Non sono così diversi da noi”, gli dice Thomasine per convincerlo a fermarsi), tra figlia e padre si aprirà lo spazio per una possibile separazione. Recuperate le forze Will si prepara ad allontanarsi di nuovo in solitudine, con la speranza che Tom continui a seguirlo: “Io non ho la cosa che hai tu”, dice lei. “Lo so”, risponde Will. E’ in questo scambio di battute l’esito del loro rapporto, la capacità di vedersi l’un altro per ciò che veramente sono, senza la pretesa che l’una porti il peso dell’altro. Lo spazio vitale cresciuto tra l’uno e l’altra come unica possibilità di scongiurare l’eredità del trauma.
In assenza di mediazione materna, forse con l’aiuto della natura, il selvatico Will è riuscito ad allevare una figlia libera.
Con questo film Debra Granik ci racconta un rapporto col padre che lei conosce? O proietta l’ombra di un delicato sogno filiale femminile fuori dai rapporti patriarcali? Da questa visione ciascuna di noi scoprirà cosa portarsi a casa, nel mio caso lo struggimento di una mancanza. (C.S.)