Il processo Eichmann. Il grande pensiero femminile sulla Shoah
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale molti gerarchi ed ex-ufficiali nazisti, sotto false identità e con l’aiuto della Croce Rossa e della Chiesa cattolica, riuscirono a fuggire. Parecchi scelsero il Sudamerica, continente lontano, poco popolato, dove già esistevano comunità ideologicamente affini. Fra di loro, il famigerato dottor Mengele, Martin Borman, segretario personale di Hitler, e Adolf Eichmann, colui che aveva organizzato la soluzione finale per gli ebrei. Tuttavia, dopo i crimini commessi, condurre una vita tranquilla non era così facile. I ‘cacciatori di nazisti’, come Simon Wiesenthal e il temibile Mossad, il servizio segreto israeliano, stavano alle calcagna.
La sera dell’ 11 maggio 1960, nei dintorni di Buenos Aires, un uomo tornava dal lavoro. Sceso dall’autobus si avviò verso la sua casa in mezzo alla campagna. La strada era buia e deserta. Un’auto si accostò e ne uscirono quattro individui che lo imbavagliarono e lo portarono via. Imbottito di sedativi e imbarcato su un aereo della compagnia israeliana El-Al, Adolf Eichmann si ritrovò a Tel Aviv. Il suo processo fu uno dei più famosi della storia. Lo Stato di Israele, nato da pochi anni, volle a tutti i costi procedure legali corrette e rigorose, mentre oggigiorno la questione verrebbe affidata al Tribunale internazionale dell’Aia, che all’epoca ancora non esisteva. Il processo si aprì l’11 aprile 1961 e si concluse con l’impiccagione dell’imputato il 31 maggio dell’anno successivo. Accorsero giornalisti da tutto il mondo e fra questi, per il New Yorker, Hannah Arendt. I suoi reportage, raccolti in seguito in un unico saggio, si intitolarono “Eichmann a Gerusalemme” con il sottotitolo “Rapporto sulla banalità del male”; col tempo, è stata questa definizione ad essere universalmente conosciuta.
Hannah Arendt, nata nel 1906, era una ebrea tedesca, cresciuta a Königsberg (la città di Kant), nella Prussia orientale. La famiglia apparteneva alla borghesia medio-alta. Colta, moderatamente di sinistra, era quasi del tutto assimilata, cioè non aderiva all’identità ebraica. Hannah perse da piccola il padre, malato di sifilide, e fu cresciuta dalla madre. Non aveva fratelli né sorelle. A 18 anni si trasferì a Marburg, sede di una prestigiosa università, per studiarvi filosofia e incontrò il trentacinquenne professore Martin Heidegger. Accadde l’imprevedibile: Hannah si innamorò di lui. E lui di lei? Mah … Heidegger era un grande opportunista, un abile seduttore, un marito fedifrago seriale per quanto succube della moglie, già temibile dal nome … Elfriede. Forse, non ancora il nazistoide che diventerà qualche anno più tardi con la mira del rettorato a Friburgo. Hannah ne rimase abbagliata per tutta la vita. Dopo qualche tempo, però, ebbe il buon senso di trasferirsi ad Heidelberg e di laurearsi con un filosofo meno sciamanico e incantatore, ma certo più di sostanza, Karl Jaspers. Si sposò pure, nel 1929, con l’ex compagno di università Günther Anders, da cui divorziò dopo alcuni anni per sposare Heinrich Blücher. Nel frattempo era fuggita a Parigi e poi negli Stati Uniti. Qui si impegnò come attivista nella comunità ebraica, entrò nella cerchia degli intellettuali newyorkesi e scrisse i suoi saggi più famosi, fra cui “Le origini del totalitarismo”, pubblicato nel 1951. La ritroviamo dieci anni dopo a Gerusalemme, eccezionale reporter del processo Eichmann. Nonché suscitatrice di una delle zuffe intellettuali più accanite del secolo, con polemici sostenitori e detrattori.
Riassumendo, i ‘punti caldi’ sono tre.
La Arendt sembra non gradire la qualità della vita in Israele, è molto critica verso gli östjuden, gli ebrei di origine orientale che costituiscono la maggioranza, non le piace il pubblico ministero né l’impostazione del processo. Lo trova poco rigoroso, troppo emotivo, con la convocazione di centinaia di testimoni, di sopravvissuti che raccontano le loro strazianti storie. Ma questa catarsi collettiva non era forse un obiettivo essenziale? Si dice che il premier David Ben Gurion, con lungimiranza, volle prevenire il negazionismo e lo svanire della memoria dell’Olocausto.
Il secondo punto è l’attacco agli Judenräte, i Consigli ebraici che, piegati agli ordini nazisti, contribuivano all’organizzazione dei treni per i lager. La Arendt considera negativamente la compassione nella vita pubblica e detesta la passività. Ritiene che gli ebrei avrebbero dovuto reagire o almeno non prestarsi. In tal caso si sarebbe creata una confusione, un caotico movimento di fuga in cui le persone avrebbero avuto maggiori opportunità di salvarsi. Ora, è vero che all’interno dei Judenräte ci fu chi si comportò da vile, da spregevole approfittatore, da realista più del re. Ma gli onesti dovettero comunque affrontare un dilemma insolubile, come il rabbino Leo Baeck che, pur potendo di fuggire dalla Germania, si rifiutò e che, deportato a Theresienstadt, consapevolmente scelse di non informare su cosa attendeva coloro che partivano verso i lager, per non rendere ancor più disperate le loro ultime ore. La Arendt, insomma, accusò le autorità ebraiche di essere ‘servi volontari’, nel senso di La Boetie. Che fossero servi non c’è dubbio ma volontari assolutamente no. Bisogna tener conto della enorme pressione psicologica, del terrore, dell’impotenza, dello smarrimento davanti all’enormità della follia criminale. Primo Levi, che ha vissuto quella realtà, afferma che nessuno può ergersi a giudice, tantomeno chi non l’ha vissuta. E quindi, prima di affrontare l’ultimo punto, dobbiamo dire che qualcosa accomuna sostenitori e detrattori: l’opinione che Hannah fosse piuttosto supponente, che pontificasse per così dire dall’esterno, col senno di poi, in modo sgradevole. Si mostrava e scriveva con un atteggiamento distaccato, consono in effetti ad una filosofa, mentre era turbata come gli altri.
Ed ecco la questione di fondo: Eichmann rappresentava davvero la banalità del male? Cioè era soltanto la rotella di un ingranaggio, come voleva far credere, un ligio esecutore? E quindi un omuncolo decerebrato, un cialtrone che sarebbe stato innocuo se non si fosse trovato immerso in un regime totalitario? Non era, al contrario, razzista e malvagio in modo pieno, cosciente e diabolico?
A questo punto entra in scena Deborah Lipstadt, storica e docente universitaria americana, nata negli anni ’40 e anch’ella di origini ebraiche. Nel 1994 pubblica “Denying the Holocaust” in cui fa riferimento, fra gli altri, a John Irving, il negazionista inglese. Costui la trascina in un lungo e difficile processo, assurdamente impostato dalla legislazione britannica: non è lui che deve dimostrare l’accusa, cioè di essere stato diffamato, bensì Deborah che deve dimostrare la realtà di Auschwitz! Su questa vicenda scrive un libro da cui è stato tratto il film con Rachel Weisz protagonista. Entrambi, in italiano, portano il titolo “La verità negata” e, così come gli accadimenti, hanno un happy end.
Per difendersi efficacemente, la Lipstadt chiese al governo israeliano una documentazione fino ad allora secretata, che usò anche per scrivere un altro libro sul processo Eichmann, in cui dedica ad Hannah Arendt un intero capitolo, l’ultimo. Entrando nella controversia sulla banalità del male e quindi sulla personalità dell’imputato, Lipstadt è estremamente cauta e imparziale. Anche sui punti precedentemente illustrati vaglia con scrupolo tutti i dati disponibili. Anzitutto scopre che Eichmann non è affatto uno stolido esecutore, ma un dinamico promotore, che si è costruito una carriera sull’Olocausto. Se c’era, per esempio, da organizzare un treno della morte, ne organizzava due; anticipava le partenze se qualche autorità locale cercava di ostacolarle; dava consigli ai superiori su come muoversi verso la soluzione finale.
Numerose testimonianze, poi, mettono in risalto la doppiezza dell’uomo: dimesso e corretto quando ancora era un funzionario di basso livello, feroce e dispotico quando aveva ormai raggiunto un enorme potere. Debole coi forti e forte coi deboli, capace di spargere attorno a sé un clima di sgomento. Non fisicamente partecipe degli omicidi di massa, ma neppure Hitler lo era mai stato, capace comunque, in alcuni casi, di compierli con crudeltà. E poi guardiamolo bene, nei video dell’epoca, questo presunto impiegato del totalitarismo: maschera di persona dimessa che all’improvviso si deforma per il disprezzo, continui tic, indifferenza alle terribili immagini girate nei campi e alle testimonianze che procedono implacabili nonostante i pianti, le grida, gli svenimenti. Come mai Hannah non se ne accorse? Secondo la Lipstadt il motivo fondamentale fu che partecipò a poche udienze e quindi non assistette a episodi significativi per comprendere la contorta psiche del criminale. Inoltre, non avendo competenze storiche, trasse conclusioni affrettate. Infine, si potrebbe concludere estrapolando un po’, la Arendt sembrava più interessata a dimostrare le sue tesi sul totalitarismo che ad analizzare con scrupolo il processo e il processato.
Essendo molto acuta, non le erano sfuggite alcune caratteristiche di Eichmann, ad esempio quella di affermare con grande enfasi una decisione presa e poi fare il contrario senza batter ciglio. Di deflettere sempre la responsabilità su qualcun altro (i superiori, qualche collaboratore incapace, le vittime stesse), di mentire, non ricordare, sminuire. Essere in un modo ma anche nell’opposto, imprevedibilmente. Non ‘pensare’ cioè non avere coscienza, non porsi domande. Ma d’altra parte, all’arrivo degli alleati, adoperarsi con efficacia per cancellare le tracce…
La Arendt gli attribuisce la qualifica di ‘buffone’, che le sembra poco lusinghiera ma irrilevante. Probabilmente, nel suo immaginario, così come nei secoli passati, il Male assumeva le sembianze dei Greci che distruggono Troia e rendono schiavi gli abitanti, dell’imperatore Vespasiano che rade al suolo Gerusalemme, di Gengis Kahn, del Grande Inquisitore. Figure di enorme potere, terrorizzanti, proterve, ma personalità definite, anzi squadrate, che perseguono coscientemente e coerentemente i loro obiettivi. In epoca moderna non è più così, anzi il nazismo è stato l’antesignano del cambiamento. Dopodiché…la Cambogia, i Balcani, il Ruanda. Un totalitarismo psicosociale, improvvisato ma non meno distruttivo.
Dirimente su tutta la questione, il recente libro di una storica tedesca, Bettina Stangneth, dal titolo italiano “La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme”.
Un tomo di 600 pagine che si legge come un romanzo. Bettina ha studiato le cosiddette “Carte argentine”, in cui Eichmann emerge in tutto il suo splendore di impunito razzista, antisemita immorale che si vanta di aver sterminato gli ebrei in prima persona, non per ordini superiori.
Insomma, parrebbe che Hannah … gli uomini non li capisse proprio. Che avesse una curiosa debolezza nel dar credito ai bugiardi manipolatori …
Fortunatamente gli studi attuali, sia di psicologia che di neuroscienze, cominciano a far luce sui fenomeni che abbiamo descritto. Eichmann è, per certi versi, un clone di Hitler, uno psicopatico d’accatto. La loro pericolosità risiede nel riuscire, partendo da zero, a suscitare consenso, a far credere alle menzogne, ad abbattere i freni morali, a diffondere il contagio della violenza gratuita. Banale? (M.P.)
FONTI
Hannah Arendt, Le Origini del Totalitarismo, 2009, Einaudi
Hannah Arendt, La Banalità del Male, 2005, Feltrinelli
Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, 2006, Bollati Boringhieri
Antonia Grunenberg, Hannah Arendt e Martin Heidegger, 2009, Longanesi
Guido Caldiron, I Segreti del Quarto Reich, 2016, Newton Compton
Deborah Lipstadt, La Verità negata, 2016, Mondadori
Deborah Lipstadt, Il processo Eichmann, 2014, Einaudi
Bettina Stangneth, La Verità del Male, 2017, Luiss
Etienne De la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 2011, Chiarelettere
Rüdiger Safranski, Heidegger e il suo tempo, 1996, Longanesi
Victor Farias, Heidegger e il nazismo, 1988, Bollati Boringhieri
Film La Verità negata, di Mick Jackson, 2016
Film The Eichmann Show, di Paul Williams, 2015
Film Lo Stato contro Fritz Bauer, di Lars Kraumer, 2015