Lee Miller: la fotografia per dare un senso alle cose
Ancora oggi si ricorda Lee Miller soprattutto per la sua sconcertante bellezza. Lee era bellissima e gli artisti ne restavano affascinati e quasi sempre se ne innamoravano: il suo viso chiaro dai grandi occhi azzurri era fatto per essere divorato dagli obiettivi, la sua naturale eleganza dava risalto non solo alla sua bellezza, ma anche al suo talento. È sempre stata fotografata e fotografata e fotografata. Suo padre Theodore Miller la fotografò ossessivamente già da piccina, ma anche in piena giovinezza, docile e completamente nuda. A lanciarla come modella fu Condé Nast, su una copertina di Vogue del 1927.
In poco tempo Lee Miller diventò una delle modelle più richieste dalle riviste di moda. Non era solo l’aspetto a colpire: ma anche quell’indefinibile mélange di caparbietà e malinconia. George Hoyningen-Huené, altro celebre fotografo di Vogue, ne rivelò la grazia androgina riprendendola con le scarpe da tennis e una tuta da marinaio portata come un abito da gran sera. E poi Man Ray, che fu anche il suo amante, Jean Cocteau e perfino Picasso che la ritrasse sei volte chiamandola l’ “Arlésienne”.
Lei stessa si fotografò, per un servizio di Vogue del 1933: una foto meravigliosa e perfetta, che la ritrae cerchietto tra i bei capelli biondi, abito di velluto bordato di arricciature, accucciata in una poltrona, aristocratica e languida, come qualche anno dopo Horst fotografò Chanel.
Lee Miller è una di quelle donne dalla vita prodigiosa. Di vite potremmo dire ne ha avute tante, una diversa dall’altra, una dopo l’altra, ogni volta diverse, sempre legate da un’unica cosa: la macchina fotografica. Tante vite iniziate poi finite, per cambiare e diventare qualcos’altro, qualcun’altra. La sua eccezionale carriera di artista sfida tutti gli stereotipi.
Una donna forte, che la vita ha segnato con innumerevoli sofferenze. A soli 7 anni infatti fu violentata mentre era a casa di parenti e, in seguito allo stupro, contrasse la gonorrea. A quei tempi, nel 1914, quella malattia si curava in modo dolorosissimo e pericoloso. Lee urlava a tal punto che dovettero allontanare i suoi fratelli per non udirne le grida. Ma anche la sua adolescenza fu segnata da un altro trauma: mentre era in canoa con il suo ragazzo Brad, questi ebbe un malessere, probabilmente un problema cardiaco, cadde in acqua ed affogò. Da quel momento Lee fece moltissima fatica a innamorarsi.
Nel maggio del 1925 arrivò a Parigi e si trovò nel bel mezzo di tutte le “nostre” Donne della Rive Gauche. Parigi era in fermento negli anni Venti: c’erano tantissimi pittori e non solo. Picasso, ma anche Claude Cahun, Andrè Breton, Paul Eluard, Max Ernst e tutti quelli del circolo surrealista di Montparnasse. Era una città sessualmente libera, ben diversa da New York, molto più aperta e accogliente, in particolare per le donne.
Appena in città, Lee conosce Man Ray e da quel momento diventa la sua modella e musa ispiratrice. Lee comincia a imparare, imparare, imparare, sia da Man Ray, che dall’amicizia con George Hoyningen-Huené. Nel 1930, quando il suo stile è tecnicamente maturo e concettualmente sofisticato, apre un suo studio in Montparnasse. Continuerà ad essere fotografata, ma anche a fotografarsi e da quel momento soprattutto, a essere lei dietro all’obiettivo. Dirà di sé: “Preferisco fare una foto, che essere una foto”. E così sarà. Lee diventerà una delle fotografe più importanti del secolo.
Quando era bambina suo padre la crebbe un po’ come i suoi fratelli, come un figlio maschio. Le insegnò i rudimenti della fotografia, della chimica, le faceva fare giochi azzardati, considerati a quei tempi pericolosi per una ragazza. Forse anche grazie a questo affrontò con tale forza quello che vide in Europa. Quello che Virginia Woolf presentiva, lei lo vide faccia a faccia, coi suoi stessi occhi. Fu la fotografa di guerra dell’Indicibile. Le sue foto, spaventose, d’altissimo impatto, mantengono la grazia e la sofisticatezza che le appartiene. È incredibile sentire tale grazia mentre si guardano le immagini dei bambini di Buchenwald. Lee non fu la sola reporter donna al fronte: come e più di lei, Margaret Bourke-White e Martha Gellhorn arrivarono in prima linea. Ma le sue foto … le sue foto …
Di quei giorni scrive: “Quando c’è stato bisogno di smettere di avere paura […] mi è riuscito e l’ho fatto.”
Ma Lee, al contrario delle altre fotografe, uscirà da quell’esperienza segnata per sempre. Quasi distrutta. Mentre era a Norimberga, dopo lo sbarco, il generale Patton la informò che sarebbero entrati a Dachau. Con una divisa su misura e non protocollare, che indosserà ininterrottamente per un anno, sarà la sola delle sei donne fotoreporter di guerra a raggiungere il fronte, seguendo l’avanzata alleata da Omaha Beach sino ai campi di sterminio. Lee fu dunque tra le prime persone a entrarvi. C’erano ancora tutti i prigionieri, le cataste di morti, i forni fumanti. Lee restò incredula. Era sconvolta. Scrisse un cablogramma alla sua redazione con queste parole: “Vi prego di credere che tutto questo è vero.” E inviò le foto.
Da Dachau e Buchenwald non ne uscì più mentalmente. Dopo aver fotografato i cumuli di morti e ossa, i sopravvissuti ridotti a scheletri, i cadaveri dei kapò massacrati per vendetta, come avrebbe potuto non tenerne conto per sempre? Il suo il suo archivio online è imperdibile, vi prego di guardarlo per comprendere bene quanto fosse talentuosa Lee e con quale forza e dignità ci ha lasciato questi documenti: https://www.leemiller.co.uk/
Di lei ci sono tantissime foto famose, più o meno conosciute, ma altrettante sconosciute e stupefacenti. C’è una foto famosissima e per me strepitosa: si fece fotografare nella vasca da bagno di Adolf Hitler a Monaco di Baviera, in Prinzenregentplatz 27. Fu lei a costruire la scena, ma lo scatto è di David Scherman: gli anfibi di lei, sporchi del fango dei lager, sul tappetino bianco, la foto del dittatore sul fondo, la divisa da reporter ripiegata sullo sgabello. E la spugna, a grattar via uno sporco impossibile da ripulire. Lee aveva allora 38 anni e si trovava in Europa a raccontare la fine della Seconda guerra mondiale.
Ma non posso smettere di guardare neppure lo sguardo che quella in cui beve nel suo studio.
Ma la Lee Miller che preferisco è quella spettinata, sporca, spericolata e fulgente della Seconda guerra mondiale. Anche se le sue foto del viaggio in Egitto col primo marito Aziz Eloui Bey sono davvero indimenticabili. Davvero surreali. Il surrealismo s’immagina sempre a Parigi o, quanto meno, in Europa … ma quanto surrealismo in quelle foto del suo viaggio in Egitto!
Ma adoro anche la Lee che, prima in abito da sera alle feste di New York, poi in anfibi e divisa, fa pubblicare su Vogue (il mensile che anche in guerra propone lussi e raffinatezze) non solo le fotografie con i corpi straziati dei soldati negli ospedali da campo, ma anche quelle che raccontano l’assedio di Saint Malo, la resa degli occupanti tedeschi, la caccia ai collaborazionisti, la gioia di Parigi liberata, la fame, l’avanzata alleata in Alsazia sotto la neve, il procedere tra morti e rovine, l’incontro con i russi, i forni crematori di Dachau e Buchenwald. In quelle fotografie non ci sono solo montagne di cadaveri, ma anche i corpi dei suicidi, i sorveglianti SS annegati o impiccati, la giovane bella figlia del borgomastro di Leipzig che si è avvelenata e pare dormire riversa su un divano di pelle.
Alla fine della guerra torna in Gran Bretagna, ma è gravemente malata di depressione e beve molto. Non ha avuto uno stupro, o un lutto; dopo quell’esperienza era come se ne avesse subiti tanti, uno per ognuno di quei corpi che aveva visto. Lei, sporca, stanca, attonita di fronte a quelle immagini; dopo essere stata per anni l’immagine, bella, bellissima, meravigliosa, ignara, mentre posava in tutta quella grazia, di quello che la vita le avrebbe fatto conoscere e fotografare.
Non riesco neppure a immaginare il giorno in cui entrò a Dachau. Non riesco. E la amo molto per quel coraggio.
Morirà nel Sussex, nel 1977.