Donne e cani, storie d’amore e coraggio senza fine
È da quando la sera mio padre mi leggeva Zanna Bianca che sono stata fortemente attratta dal Grande Nord americano. Ci andrò. In Alaska. Ci andrò presto, a vedere la grande corsa. Dal 1985 quando seppi che una donna, Libby Riddles vinse la gara, non vedo l’ora di assistere a questa che è una delle più grandi sfide tra esseri viventi e natura che esista. Come la maratona del deserto. Sfide in cui si rischia la vita. In cui devi saper fare squadra non con delle persone ma con dei cani. In cui sei sola con una natura che se non sai rispettare ti ucciderà. E ucciderà loro. La corsa su ghiaccio più lunga del mondo a meno 40° gradi con 10 cani e una slitta. Quasi 2000 km in cui passi su fiumi ghiacciati, attraversi tempeste, di giorno e di notte, con una lucetta in fronte immersa nell’oscurità, nel silenzio, a centinaia di chilometri da tutto e tutti, in piedi sulla tua slitta di legno coi tuoi compagni. Là dove nessuno ti può aiutare e puoi contare solo su te stessa e sui tuoi amici. E in Dio se ci credi. Dove anche soccorrerti è difficile, perché muoversi via terra non è facile neppure con le motoslitte per l’impraticabilità dei passaggi di montagna e le possibili avarie ai motori dovute alle basse temperature.
Eppure tante donne ce l’hanno fatta. Lasciandosi alle spalle decine di uomini allenati e con staff e sponsor ben remunerati. Professionisti della neve e della corsa all’oro, come un tempo si faceva lì. Questi sono i luoghi di Jack London e della regola 30-30-30 «a meno 30 gradi Fahrenheit cioè a 34,4 gradi centigradi sotto lo zero, e con venti da 30 miglia cioè quasi 50 chilometri allora (ma spesso sono il doppio più forti), la carne umana si congela in 30 secondi». Incredibile. Da vedere. Una volta almeno nella vita. Questa gara che copre un percorso di 1049 miglia (cioè 1.853 chilometri) all’interno delle aree desertiche dell’Alaska.
Ha avuto origine da un fatto vero che risale all’inverno del 1925 quando la popolazione di Nome, la cittadina in cui termina la gara e che si affaccia sullo Stretto di Bering, fu colpita da un’epidemia di difterite. La “malattia portata dai bianchi” che mieteva vittime soprattutto fra i figli dei nativi. Non vi erano scorte sufficienti di medicinali per salvarli. L’antitossina era disponibile ad Anchorage, quasi duemila chilometri a sud. Il porto era bloccato dal ghiaccio e gli aerei non atterravano così una parte di percorso fu coperta dal treno e i restanti 1600 km da una staffetta di venti slitte trainate da oltre cento cani, che in poco più di cinque giorni coprirono il percorso e recapitarono il farmaco a Nome. Musher e cani salvarono decine di vite.
L’ultimo staffettista, il norvegese Gunnar Kaasen e il suo cane leader Balto, divennero così famosi che anche la Disney – se ricordate – ci ha fatto un film d’animazione. Così come la Maratona omaggia la corsa di Filippide verso Atene, la staffetta di cani ha generato quasi cinquant’anni dopo l’Iditarod. Inizialmente si correva solo per ricordare quell’evento, per spirito di avventura e per sano agonismo: c’era un misero montepremi e concorrevano pochi e folli appassionati. Si attraversava la spietata tundra artica, i passi gelati di un paio di catene montuose e le superfici ghiacciate del fiume Yukon e della Baia di Norton, nel mezzo di paesaggi mozzafiato e spaventose tormente di neve che abbassano le temperature fino a 40 °C sottozero con un equipaggiamento che al confronto di quelli d’oggi faceva ridere. Nel 1973 ci si mettevano 20 giorni a coprire l’intero percorso.
Nel 1985 Libby Riddles fu la prima musher (dal grido di incitamento “mush!” che viene fatti ai cani e che significa “avanti”) a vincere: lo coprì in 18 giorni. All’ultima sosta presso il villaggio eschimese di Shaktoolik, a 200 chilometri da Nome, una poderosa tempesta bloccò tutti i concorrenti. Libby guidò con coraggio i suoi cani per un incerto sentiero sferzato dall’implacabile blizzard senza sapere se si era persa o se avevesse conquistato la testa della gara. Ma era prima. Con la visibilità ormai ridotta a zero mise poi i suoi cani al riparo e s’accovacciò nel sacco a pelo vicino a loro, sperando che la notte trascorresse senza danni. L’indomani mattina superato quel terribile momento insieme si lanciarono verso il traguardo e giunsero a Nome con oltre due ore di vantaggio sulla seconda muta, chiudendo in 18 giorni e 20 minuti. Gli anni successivi vinse per tre volte un’altra donna, Susan Butcher che abbassò incredibilmente il record di una settimana! 11 giorni e 15 ore. Instaurò addirittura una supremazia fino ad allora inedita, trionfando tre volte e finendo sul podio in altrettante occasioni nelle edizioni fino al 1992.
Gli uomini cominciarono a guardare a lei e alle altre donne in gara con occhi diversi. Dovettero riconoscere le loro qualità e ammettere che sapevano domare altrettanto bene, anzi anche meglio, le insidie del freddo, del vento, della solitudine e della stanchezza. Per lungo tempo Susan aveva dovuto sopportare le discriminazioni e l’ostracismo dei maschi, che non esitavano mai a unire le forze per ostacolarla. Questo la costrinse a nuove strategie, a essere più brava, più forte, più intelligente: doveva essere il doppio migliore di loro per essere considerata la metà ma alla fine, proprio per questo, dominò.
Nel corso degli anni, sono state introdotte soste obbligatorie lungo i 27 checkpoint ed è stato incrementato il numero di medici che presidiano il percorso. Più di 50 musher partecipano ogni anno alla gara. Già dal 1984 tutti i cani che competono vengono controllati da un’equipe di esperti e talvolta seguiti con microchip e collari speciali. Gli husky siberiani sono i cani da slitta per eccellenza. Sono veloci e robusti ma soprattutto in grado di resistere al freddo. Ogni volta che il o la musher passa per un check point per farli riposare vengono controllati attentamente dai veterinari. Nonostante questo molti musher spingono i cani oltre le loro capacità fisiche solo per la sete di vittoria. Infatti non vengono ammesse persone denunciate per abbandono di animali o maltrattamenti.
Per chi abita in Alaska l’Iditarod non rappresenta solo il ricordo del salvataggio dei bambini e delle bambine di Nome, ma anche le origini leggendarie di una terra strappata all’implacabile forza di una natura ostile e dell’essere umano che ne sfida la supremazia. Come un orso che si risveglia dal letargo, la gara si corre alla fine del terribile inverno e annuncia la nascente primavera. Iditarod solletica il resistente machismo dei concorrenti che considerano la corsa un’occasione ideale ed esclusiva per l’esercizio di tutte le proprietà tipiche del “vero uomo”: coraggio, spavalderia, temerarietà e rudezza di modi. Per questo son qui a parlarvi di un’altra donna oltre a Libby e Susan: Aliy.
Perché lo spirito di Balto e degli staffettisti che corsero per salvare vite non è più lo stesso. Ma non per Aliy Zirkle. Ora si corre per vincere. Per vincere 51.000 dollari. Lo dice lo stesso Mitch Seavey uno dei pluripremiati vincitori: io corro solo per quello, vincere. Capostipite di una famiglia di musher. Anche i figli hanno vinto più volte. Corrono per questo. Per vincere. Nel 2018 la sua muta è risultata positiva all’antidoping ed è stato squalificato. Per questo sono a raccontare la storia di Aliy Zirkle, io che di lavoro sono una coach, per parlarvi di cos’è vincere, come si fa, cosa significa. Non di come Aliy abbia vinto più volte la gara, ma di come l’abbia persa, tante volte, correndo le gare più belle di tutti, senza perdere un cane. È stata anche aggredita durante una delle edizioni: hanno tentato di ucciderla con tutta la muta. Un pazzo, in motoslitta, ha cercato di falciarla. Lei si è messa tra lui e i cani rischiando la vita per difenderli. Poi sono stati loro, per il resto della gara, a vegliare su di lei la notte, soprattutto Schmoe il più emotivo, che non ha più dormito per farlo. Per arrivare al traguardo vivi e insieme. La storia di un grande successo per me. Aliy ha corso 19 edizioni. Mai saltata una dal 2001 ad oggi. Per tre volte seconda non ha mai vinto.
L’associazione Usa per la difesa dei diritti degli animali si dedica da tempo a cercare di porre fine alla corsa, giudicata una “strage” dei cani sia durante la gara che nelle fasi di preparazione. Grazie a loro oggi la competizione è regolamentata col massimo rispetto per gli animali. Rob Urbach, nuovo organizzatore di Iditarod ha detto che incontrerà il vicepresidente esecutivo di Peta Tracy Reiman per parlare delle differenze tra “i bisogni e il comportamento dei cani e quelli degli umani”. È il minimo mi pare.
Perché per fare ogni cosa c’è un modo giusto e uno sbagliato. Questo è il vero successo nello sport. Questa è quell’eleganza che deriva dall’intelligenza. Non se arrivi prima di 2 minuti in una gara che dura 8 giorni, ve lo posso assicurare.
Come altri Aliy è ogni volta arrivata a destinazione, correndo giorno e notte con la guida delle stelle e del fiuto e dormendo un paio d’ore ogni 24. Non gridando ma sussurrando ai cani che sono sensibilissimi ai suoni e anche se tra lei e il leader ci sono 15 metri di distanza, sa che basta bisbigliare: i capi muta corrono con le orecchie all’indietro, pronti a cogliere anche il suono più leggero. Sola, lei coi suoi cani, come 2mila anni fa. I cani a guidare lei e lei a dirigere loro. Ma non con redini o fruste: solo con la voce, o con quella che qualcuno chiama «percezione extrasensoriale fra mente umana e canina». Ogni anno, qualche concorrente abbandona fermato dal gelo e dalle allucinazioni. La forza – diceva Gandhi – non deriva dalle capacità fisiche, ma da una volontà indomita. Aliy non ha mai mollato, mai, neanche dopo l’aggressione.
Non è un caso che mentre le associazioni animaliste scrivono al governatore dell’Alaska lettere di richiesta perché la gara venga abolita poiché almeno 5 cani muoiono ogni anno per l’eccessivo sforzo, Aliy Zirkle vinca il premio speciale «Leonhard Seppala Humanitarian Award», che viene consegnato a chi durante la gara si è distinto per la miglior cura nei confronti dei propri cani. Sempre seconda per loro. Perché lei li fa riposare e se ne preoccupa come di se stessa. Perché lei fa sport non cerca solo di vincere la gara. Perché fa la cosa giusta. Preferisce sentirsi chiamare runner up che nuocere ai suoi cani. Perché si possono fare le cose anche bene. Per questo perde, di soli 2 minuti. Ma senza perdere un cane. Per soli 2 minuti e 51.000 dollari in meno. (R.F.)