Oltre la donna fatale: Lyda Borelli, straordinaria/mente moderna

Oltre la donna fatale: Lyda Borelli, straordinaria/mente moderna

di Maria Dolores Cassano

Negli ultimi anni della sua carriera artistica, e all’apice della fama, Lyda Borelli decise di adottare per la sua personale carta da lettere il motto: “La meute aboye… je passe” (La muta abbaia… io passo).

Intorno alla sua figura, soprattutto dopo il debutto cinematografico, era cresciuta un’atmosfera di grande entusiasmo, alimentata da indiscrezioni sulla sua vita (matrimoni favolosi, contratti inverosimili), suscitando manifestazioni che rasentavano il fanatismo. Lei aveva deciso, in maniera noncurante, di andare oltre. Consapevole che tutto il frastuono, la pubblicità “smodata” dei suoi abiti e le attenzioni impertinenti sui suoi connotati fisici rischiavano di farla “morire artisticamente sotto una metaforica pioggia di rose”, la Borelli sceglie, da attrice colta e raffinata, di affidarsi alla sua “visione d’arte”: sullo schermo crea una figura femminile stilizzata che farà scuola, mentre rimane fedele, fino al congedo definitivo dalla vita artistica, alla “fonte di gioia spirituale” che per lei rappresenta il teatro.

D’altra parte, sulle tavole polverose del palcoscenico la Borelli, figlia d’arte, ci era praticamente nata e cresciuta e nel corso della sua carriera professionale, che inizia quattordicenne nel 1901, recita accanto ad alcuni dei massimi interpreti della scena teatrale contemporanea: da Virginia Reiter a Virgilio Talli, Irma Grammatica, Ruggero Ruggeri, Oreste Calabresi e, nel settembre 1905, con Eleonora Duse, interpretando il ruolo da protagonista che la Divina aveva recitato per decenni.

Nel corso degli anni affronta sia ruoli comici e brillanti, dove mette in luce una recitazione dai toni disinvolti e spigliati, sia ruoli drammatici che alterna con successo nel corso dell’intera carriera, con un vasto e ricco repertorio di autori, prevalentemente francesi, consolidando, via via, una propria originale abilità interpretativa e ottenendo numerosi riconoscimenti personali.

Quando diventa “prima donna” nella compagnia di Ruggeri, nel 1909, debutta nella Salomè, la tragedia di Oscar Wilde, uno dei personaggi più iconici del simbolismo europeo, di cui le cronache descrivono la ricchezza decorativa dell’allestimento scenografico, alla Klimt, adatte a creare un’atmosfera che esalti la “raffinata sensualità della protagonista”. Per la giovane Borelli è un vero trionfo, prima nei teatri di Rio de Janeiro, Buenos Aires e Città del Messico e poi, dal maggio del 1910, nei maggiori teatri nazionali (Milano, Torino, Bologna, Roma, Napoli) dove ottiene un consenso unanime di stampa e pubblico. L’attrice raggiunge grandi effetti drammatici, commenta la critica, nell’interpretare il difficile personaggio di Salomè, mentre il pubblico è entusiasta nella scena della danza dei sette veli, dove si conferma una danzatrice “garbata e seducente”.

È grazie alla interpretazione della principessa israelita che la Borelli ottiene un successo personale strepitoso insieme a una notorietà mai raggiunte prima, amplificata da una massiccia diffusione di centinaia di ritratti, realizzati da alcuni tra i più importanti fotografi italiani del primo Novecento (come Emilio Sommariva e Mario Nunes Vais) e che spesso l’attrice autografa con la sua calligrafia “sparviera”, facendone omaggio agli ammiratori.

La sua non comune bellezza ne fa un soggetto preferito dell’arte fotografica e delle riviste teatrali e di costume le cui lettrici, sempre più numerose, si dimostrano molto interessate alle vicende professionali e private di una delle più celebri protagoniste della scena e contribuiscono a costruire quell’immagine di icona di stile ed eleganza che si afferma definitivamente col cinema.

Alta, slanciata e con una massa di capelli color rame, conquista velocemente il favore del pubblico, che la ammira per la sua bellezza e per l’eleganza e originalità delle sue toilettes, a cominciare dagli abiti di ispirazione greco-romana creati dalla sarta-artista Rosa Genoni, pioniera della moda italiana, che indossa al Teatro Olimpia di Milano in occasione della commedia Matrimonio di Giacomina di Paul Gavault, a quelli più disinvolti e trasgressivi come la jupe-culotte (la prima forma di pantalone femminile) che per prima indossa a teatro a Firenze, nel febbraio del 1911, durante la rappresentazione del Marchese di Priola di Henry Lavedan e che suscita sui giornali un acceso dibattito tra favorevoli e contrari, mettendo in evidenza come il desiderio di moda, la ricerca di un modo di vestire più comodo e libero, fermentano nella società femminile dell’epoca.

La Borelli, da giovane donna moderna e dinamica, proiettata verso il futuro, già a partire dal 1908, dichiara il suo entusiasmo per i nuovi mezzi di trasporto, come l’automobile o l’aeroplano, e la grande attrazione che ha per la velocità, qualità indispensabile della modernità:

Il mio più gran piacere – dichiara ad un intervistatore – è quello di slanciarmi sull’automobile, lungo le strade lunghe, interminabili, dove io possa ‘volare’ senza inciampi, godendo di riempirmi i polmoni con un torrente d’aria, ridendo se i miei capelli sfuggono di sotto il velo e del mio berretto sportivo”.

Da quel momento la si vedrà di frequente al volante di una vettura, nel centro di Torino “con grande chiasso di trombe”, o nelle vie consolari che portano ai Castelli Romani, come testimoniano le numerose fotografie che la ritraggono con un’automobile Isotta Fraschini.

Qualche anno più tardi, racconta in una intervista ad Arnaldo Fraccaroli, sulle pagine del Corriere della Sera, del suo primo volo in Messico su un biplano Voisin e del suo fidanzamento con un giovane signore col quale era salita a quindici, venti metri per una ventina di minuti:

Ah, che impressione! Mi diede un indicibile senso di gioia. Pare di alzarsi per virtu’ propria: si ha l’impressione di diventare una cosa leggera, di una fluidità incorporea”.

Nell’agosto del 1911 i giornali annunciano la partecipazione dell’attrice a Rimini alla “Grande Riunione Aviatoria” dove, indossando con disinvoltura “un abito maschile di tela”, vola a bordo di un monoplano Bleriot, condotto dal celebre aviatore Romolo Manissero, che raggiunge i 700 metri di altezza, e dal quale scende, tra uno scrosciare di applausi, sorridente, confermando che volare è “una cosa oltremodo piacevole e gradevolissima”. Questa particolare attitudine, insieme a quella di automobilista e di ballerina, confluiscono poi nell’interpretazione della “bella e ardita aviatrice”, la sua omologa Lyda, protagonista del suo secondo film, La Memoria dell’altro.

I primi anni Dieci del Novecento sono attraversati da una molteplicità di influssi culturali caratterizzati dalla ricerca di uno stile nuovo e di una nuova libertà creatrice che coinvolge tutte le arti, e che mette al centro una nuova figura femminile, protagonista delle raffigurazioni liberty, dalla silhouette allungata e flessuosa di cui la Borelli sembra la perfetta incarnazione.

A Torino, sua patria d’elezione (dove ama ricordare spesso di aver debuttato, all’età di sei anni, al fianco di Mercedes Brignone), vanta stretti legami con gli ambienti intellettuali e letterari, come il sodalizio con Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano, testimoniato da una fotografia che li ritrae insieme in posa nel salotto letterario della rivista “La Donna”, dove la Borelli è invitata ad esibirsi nella lettura di alcuni versi dei due poeti. Nel resoconto della serata la scrittrice Luisa Macina Gervasio (nota con lo pseudonimo Luigi di San Giusto) incantata, racconta come il viso dell’attrice “si trasformava, diventava una maschera appassionata e violenta: gli occhi sereni avevano lampi e lagrime, dalla gola delicata uscivano stridii, gemiti e urli, il braccio, inguantato, morbido e nervoso, si contraeva visibilmente negli spasmi di angosce sovrumane”.

Una tale immagine di donna – scrive Cristina Jandelli – nervosa e sofferente ma anche delicata e voluttuosa – non può che sorprendere. È la stessa che Lyda Borelli porterà al cinema offrendo un modello da seguire al pubblico femminile contemporaneo”.

Sul finire del 1913 il debutto sullo schermo, con Ma l’amor mio non muore, riconferma il suo ruolo di protagonista indiscussa (nonostante l’esordio non avviene senza creare contrasti) anche nella nuova arte cinematografica. Il successo del film rimuove definitivamente le sue prime resistenze: si era vista così brutta, confessa ad un intervistatore, da pensare di non posare mai più per un film, ma poi cede alle insistenti offerte della società di produzione Gloria di Torino, ammettendo che i vantaggi offerti dal cinematografo, che in quegli anni vive il suo periodo di maggiore sviluppo, sono di gran lunga superiori a quelli che il teatro possa mai offrire.

Il film diretto da Mario Caserini, uno dei pionieri del cinema muto italiano, si presenta con una grandiosa messa in scena e con quadri al vero, girati in esterno nei dintorni di Nizza e Montecarlo, ed è salutato dalla critica come la prima “vera opera d’arte drammatica” in cinematografia, che il pubblico accoglie con grande entusiasmo.

Si tratta di un dramma passionale alla maniera dannunziana, esplicitamente basato sul melodramma, attraversato da intricate storie di passione e di morte dove Lyda Borelli è Elsa Holbein, la giovane che, dopo dolorose vicende, si esibisce con grande successo nel teatro di una località rivierasca, e, travolta dalla disperazione per il suo amore impossibile, muore in scena, avvelenandosi, mentre fa rivivere il dramma della Signora delle camelie.

L’interpretazione cinematografica della Borelli, che mette in scena una soggettività femminile complessa e si misura, per la prima volta, con una recitazione mimico-gestuale nuova, è commentata sulle pagine del “Giorno” da Matilde Serao che scrive:

“(…) mai essere umano, mai essere femminile, seppe tramutarsi così profondamente nelle linee, nelle espressioni, tanto che il viso della giovinetta ridanciana, quello della fanciulla pensosa, quello della donna mesta, quello della donna tragicamente dolente, tutti questi visi, e tanto altri, sono in lei, sono sempre in lei, ed è sempre un’altra donna! E mai questo dono portentoso di trasformazione è stato più palpitante che in questa film incomparabile,” dove aggiunge la scrittrice “la Borelli ha raggiunto tanta verità di fisionomie, tutte diverse, tutte belle, tutte diversamente belle”.

Il critico Berton commenta che anche l’obiettivo sembra essersi “piegato riverente ai [suoi] voleri” riproducendo sullo schermo ogni piccolo gesto, contrazione, ogni sensazione anche impercettibile con una efficacia e semplicità di mezzi propri dei grandi artisti.

Davanti agli occhi sorpresi degli spettatori che attraverso i piani ravvicinati vengono condotti a una specie di intimità psicologica con la protagonista, la Borelli mette in scena, con uno stile inconfondibile, i diversi sentimenti come il dolore, la disperazione, la passione amorosa con una serie di gesti, di espressioni del volto e di pose plastiche, come quella “floreale” con il braccio proteso appoggiato allo specchio intero, che rappresenteranno gli elementi peculiari della sua recitazione.

A qualche mese di distanza viene presentato La memoria dell’altro dove la Borelli, chiaramente ispiratrice del soggetto scritto dalla Baronessa De Rege, interpreta una giovane donna, che ha il suo stesso nome, impegnata in attività tipicamente maschili come quella del volo – forse uno dei motivi non piccolo del successo del film – e che guida con la massima disinvoltura l’automobile, ma che insegue il suo amore impossibile e quando sente che tutto è finito, che il sogno si è dissolto, muore mentre cerca di afferrare la fotografia dell’amato.

Il film, proiettato con quotidiani spettacoli in serie, come annotano le cronache, aveva fatto fremere, piangere ed entusiasmare e il suo strepitoso successo, secondo il critico Baldus, era tutto da ricercare nell’interpretazione della protagonista. Lyda Borelli aveva creato un tipo di donna “dinamizzata” che esaltava, in maniera originale, la bellezza e la sensibilità femminile, e che rappresentava per il pubblico femminile, sempre più numeroso, un nuovo modello di donna, tanto da suscitare quel fenomeno di emulazione collettiva che va sotto il nome di borellismo, quando le ragazze si facevano tingere i capelli di biondo e fotografare con le mani allacciate sotto il mento in pose assorte e languide, intente “ad imitare la diva nella sua vita inimitabile”.

Il cinema, negli anni a cavallo della Grande Guerra, è un successo popolare che suscita una simpatia sempre crescente sia negli ambienti letterari, con la produzione di soggetti e sceneggiature di qualità, sia in quelli teatrali dove intere compagnie vengono scritturate, come avviene per la Piperno-Gandusio-Borelli con la Cines, che offre alla primadonna una scrittura favolosa per realizzare una trilogia tratta dalle predilette commedie del drammaturgo francese Henry Bataille: La donna nuda (1914), La Marcia nuziale (1915) e La Falena (1916).

Sulle pagine della “Tribuna” di Roma Lucio D’Ambra, apprezzato critico, scrittore e regista conferma la nascita, di un genere nuovo, cioè della cinematografia psicologica di cui la Borelli è l’interprete perfetta: “Nel dolore e nella gioia, nella ebbrezza e nel tormento, nell’odio e nell’amore, quest’attrice non si esprime solamente con la voce, con gli occhi, col viso. Tutta la sua persona è drammatica, è eloquente, è espressiva.

Era un suggerimento del suo produttore quello di continuare a delineare, anche se con qualche variazione, quel “tipo psicologico” che secondo lui era l’unica a poter interpretare e che in effetti non verrà più abbandonato nella sua breve ma sfolgorante carriera cinematografica, durata cinque anni e una dozzina di film e che rappresentano il contrassegno di un’epoca. La conferma è in una lunga lettera indirizzata a Fassini, Direttore della Cines, che riguarda progetti futuri, tra cui quello di un film (che non verrà realizzato) tratto dal romanzo Forse che si, forse che no del Divo D’Annunzio.

Scrive divertita la Borelli: “Volete che continui il “tipo psicologico” come dite voi (Io direi patologico!) All right! Lo continuerò. Io ho in voi artisticamente (…) una fiducia assoluta e seguirò sempre volentieri i vostri consigli”. Ma è un tono un po’ scherzoso e confidenziale perché’ da vera primadonna la Borelli detta al suo produttore le sue regole, anche quando riguardano i realizzatori dei film, la scelta del cast tecnico e artistico e quella dei soggetti.

Il cinema offriva nuove vie di sperimentazione narrativa e nuove possibilità della recitazione, in cui il corpo diventava lo strumento per comunicare le emozioni, rendendo visibile l’interiorità del personaggio, ma intervistata nel 1914 a proposito della mancanza del suono delle parole nell’interpretazione cinematografica rispondeva:

Intanto la mimica muta è uno sforzo troppo grande anche per me, ed io parlo perché sento che la voce mi accompagna nel sentimento richiesto e riesco perfettamente all’effetto voluto”. Quelle parole che cadono nel nulla producono “movimenti labiali [che] sformano talvolta il viso e vengono delle riproduzioni non esattamente consone al nostro volere. Ma la pellicola è impressa e quel che è stato è stato”.

Il mondo teatrale italiano che aveva gridato al fenomeno, per tutta quella folla in delirio che riempiva le sale di proiezione, insisteva, però, sul “poco decoro” che un’attrice di teatro arrivata, come era lei, potesse impegnarsi nel cinematografo, opponeva le lunghe e faticose stagioni teatrali itineranti, spesso inconciliabili con i tempi di lavorazione dei film. In una lettera indirizzata al barone Fassini, della Cines, la casa cinematografica alla quale l’attrice si legherà fino alla fine della sua carriera, è Cesira Banti, madre della Borelli, a rivelare come il teatro abbia il timore di perdere una delle sue prime stelle e faccia di tutto per trattenerla a sé. Anche lei attrice, Cesira Banti, conosce bene la faticosa vita degli artisti girovaghi e premurosa nei confronti della salute della figlia, bisognosa di un lungo riposo, approva e promuove la scelta di “guadagnare onestamente senza affaticarsi troppo e riguadagnare quanto perduto in salute”.

Fino al termine della sua parabola artistica la Borelli alterna la faticosa vita di tournée delle compagnie teatrali alla sua attività cinematografica, ormai convinta che l’arte non abbia più bisogno dei limiti della ribalta, può spaziare perché’ “ovunque è bello riprodurre il vero” e la cinematografia, quest’arte nuova, deve mirare a riprodurre “in tutte le esplicazioni di vitalità il mondo e le sue cose”. Allo stesso tempo è ferma nella convinzione che il teatro e il cinema siano “due cose distinte assolutamente l’una dall’altra” e spiega:

Nel teatro è la vita e la viva voce che suscitano le emozioni più diverse; la riproduzione muta cinematografica da’ acutissime sensazioni ed emozioni quando è ben trattata, però non porge quel sollievo intellettuale che dà il teatro. Nella riproduzione cinematografica è tutta la intensità della mimica che ti trascina, nel teatro è il singhiozzo udito che ti porta al pianto e il riso più caldo e più sincero che ti invita alla ilarità

L’industria cinematografica italiana, che vive il suo momento di massima rilevanza internazionale, con l’evoluzione della tecnica della macchina da presa e l’impiego del lungometraggio, è lanciata nel fare affari e, dopo la presentazione del kolossal Cabiria a cui aveva lavorato D’Annunzio, ha ormai ottenuto anche la sua consacrazione artistica.

Dopo il “cinedramma” Fior di male del 1915, la Borelli realizza dall’omonimo dramma di Victorien Sardou, forse il più famoso commediografo dell’epoca, Madame Tallien (1916), film ambientato all’epoca della Rivoluzione francese, a cui fa seguito Malombra (1917) dal romanzo di Antonio Fogazzaro e Rapsodia satanica (realizzato già nel 1915 ma presentato al pubblico solo nel 1917), forse il risultato migliore raggiunto per la partecipazione di alcune delle sensibilità artistiche più affini alla Borelli, come il commediografo e scrittore Fausto Maria Martini, il regista Nino Oxilia e il musicista Pietro Mascagni e che ambiva a diventare opera d’arte totale. Seguono la Storia dei tredici (1917) tratto da un racconto di Honoré De Balzac, Carnevalesca (1918) da un soggetto di Lucio D’Ambra e l’ultimo Una notte a Calcutta con soggetto e regia di Mario Caserini.

Qualche critico la accusa di eccedere nel gesto, che rischia di fare “concorrenza ai contorsionisti dei circhi equestri!” (riferendosi agli spasmi e ai contorcimenti che accompagnavano certi momenti di massima tensione) altri, invece, la considerano la maggiore interprete cinematografica, perché’ propone non interpretazioni nuove o speciali ma “una sua forma d’arte nuova”.

Nei drammi borghesi che il cinema metteva in scena, dominati dalle estetizzanti mode dannunziane, la donna è fatale, una ammaliatrice destabilizzante che seduce e spaventa l’immaginario maschile, che la Borelli interpreta, però, utilizzando una molteplicità di influssi culturali che le sono contemporanei: dalla pittura preraffaellita, alla cultura liberty e simbolista da cui derivano alcuni caratteri e suggestioni che entrano a far parte di una recitazione moderna, che, nel cinema, sperimenta l’utilizzo di tutto il corpo, soprattutto il movimento delle mani e la mobilità degli occhi, come” elementi di psicologia, di trasmissione dell’intimo tumulto passionale”.

In debito verso le contemporanee esperienze delle avanguardie, dal futurismo, al teatro espressionista, alla danza delle famose ballerine come Isadora Duncan, Lyda Borelli travalica la classica iconografia della donna conquistatrice, maliziosa e sensuale e vuole spingersi oltre. “A differenza di altre donne fatali – scrive Fausto Montesanti – a lei contemporanee o posteriori, sia in Italia che altrove, Lyda Borelli seppe conservare un pudore e una spiritualità ammirevoli”, interpreta personaggi torturati da complessi problemi di coscienza, animati dal tema della “rinuncia” alla felicità e all’amore, caratteri che si ritroveranno più tardi in Greta Garbo.”

Si congeda definitivamente dalla vita artistica nel febbraio 1918 quando decide di sposarsi e nel momento in cui una forma di fanatismo accompagna la sua figura.

L’addio, inaspettato per molti, è al teatro Valle di Roma dove si rappresenta La via più lunga, una delle prime e più fortunate commedie di Henry Bernstein e dove, racconta il giovane Vincenzo Cardarelli, l’attrice viene “addirittura perseguitata dalle acclamazioni insistenti del pubblico” appena appare sulla scena, perché’ è lei che il pubblico vuol vedere “questo fenomeno di bellezza immutabile, inadattabile e straordinario che ha l’egoismo di non volersi mascherare, è naturale”.

BIBLIOGRAFIA
Biggi M.I., Zannoni M. (2017), Il teatro di Lyda Borelli, Fratelli Alinari, Firenze
Cardarelli V. (1969), La poltrona vuota, Rizzoli, Milano
Jandelli C. (2006), Le dive italiane del cinema muto, L’Epos, Palermo
Lotti D. (2020), Il cinema tra le colonne, Rubettino, Soveria Mannelli
Montesanti F. (1952), La parabola della diva, in Bianco e Nero, XIX, n.7-8
Pantieri J. (1993), Lyda Borelli, M.I.C.S., Roma
Paronitti K. (2013), Lyda Borelli, divina incantatrice in Pagani F. (a cura di) Le incantatrici, rivista elettronica http://cav.unibg.it/elephant_castle
Il Cinema Ritrovato (2018), Dive – Lyda Borelli- Francesca Bertini, Dvd, Cineteca di Bologna

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