Marina Cvetaeva, nei Luoghi abitati da un’Anima scorticata viva
“In tutto – in ogni persona e sentimento – io sto stretta, come in ogni stanza: di una tana o di un castello.
Io non riesco a vivere- e cioè a durare- nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me.
È una malattia inguaribile e si chiama – anima -“.
Questa la dolorosa e disarmante umanità di Marina Cvetaeva.
Quasi tutti gli amori di Marina varcavano la soglia della gravità terrestre, e si proiettavano fuori dal tempo e dallo spazio.
Erano incontri ultraterreni – come lei stessa li definiva – in cui lo slancio frenetico e l’irruenza della sua incontenibile anima, mai sazia di Parola e Poesia, trovava miraggi di ristoro e pace, di carburante per alimentare il suo talento creativo. Era la comunicazione per lettera il suo modo d’elezione, era così che riusciva ad entrare in contatto privilegiato con l’Altro: perché la Parola per lei non era meno reale e “fisica” della stretta fra due mani, la Parola dava fisicità all’incontro di anime spiritualmente vicine. E si dava tutta intera, senza censure, generosa e passionale stringeva mani senza mani, dava baci senza labbra.
Cercava Cvetaeva chi avesse Parole che la incantassero, perché solo agli Incantesimi lei credeva.
Attraverso lettere appassionate colme di insopprimibile necessità di relazione e d’espressione poetica, generava, alimentava, dava senso e consistenza al sentimento col quale investiva, come un uragano, il suo interlocutore.
Non sempre il suo cuore grande e generoso centrava cuori altrettanto belli: a volte erano moscerini che lei, piena di fame, mascherava da giganti; capita che la fame confonda i sensi, che, come le capitava nei giorni della sua tribolata esistenza terrena, le patate in un pentolino d’acqua fossero l’unico cibo a disposizione per mesi; e lei, infiammata, investitiva quegli uomini di tempeste emotive sproporzionate per il misero pentolino che li conteneva. Capitava che gli sventurati non reggessero tale impeto di Onde e di Calore e che se la dessero a gambe levate (la mente, per un attimo, si distrae e gioca con la visione di una patata, fornita di gambe, che fugge da un pentolino rovente…). Capitava anche che lei capisse, ad un certo punto, che nel piatto vi fosse effettivamente un moscerino o una patata, allora ritirava la sua Fiamma, abbandonava a velocità di fuga la sua dolorosa concentrazione (chiamava così, a volte, l’amore…) su chi si era rivelato ai suoi occhi un banale e mediocre essere umano.
Erano amori tanto assoluti e totalizzanti, quanto liberi dal peso dei corpi, dalla presenza fisica dell’altro.
Alcuni furono davvero amori di anime alla pari, incontri di Anime di giganti e non di moscerini, e continuarono ininterrotti, passionali e struggenti, per molto tempo.
Quello tra Cvetaeva e Pasternack, fu un capolavoro di amorosa persistenza epistolare, un insolito e quanto mai straordinario rapporto a mezzo di inchiostro. Prima che una euntusiastica relazione d’amore scoppiasse attraverso lettera, ebbero modo di incontrarsi qualche volta, casualmente e di sfuggita, sfiorandosi appena, senza parole, a incontri letterari e letture di poesie. Ma in quelle occasioni, in quegli anni della guerra e della rivoluzione, non si piacquero molto. Anzi. Cvetaeva trovò la lettura di Pasternack penosa, lenta, il borbottio di un orso che si stava svegliando: “Dio, perché torturare in questo modo sé stesso e gli altri!” – sbottò spazientita. Pasternack la sentì leggere i suoi versi ma non riuscì ad ascoltarla attentamente: “La Cvetaeva non mi interessava proprio!” – affermò.
Poi, nel 1922, Pasternack lesse un libretto di sue poesie e ne venne letteralmente posseduto!
Nella sua autobiografia Pasternak ricordò quei momenti: “Bisognava leggere attentamente i suoi versi. Quando lo feci, la bocca mi si aprì in un “oh!”. Scrisse a Cvetaeva una lettera di entusiasmo e meraviglia per “quell’abisso di purezza e di forza”, che per tanto tempo si era lasciato sfuggire e che non era simile a nulla che avesse letto prima. E Marina, sempre col cuore in attesa e pronto, rispose. Avevano moltissimo in comune, a partire dalle rispettive famiglie, entrambe di Mosca, con i papà professori e le madri pianiste di talento della scuola di Rubinštein; avevano l’amore necessario, ineludibile e viscerale per la scrittura e la poesia. Per tutti gli anni Venti furono indispensabili uno all’altra, si dedicarono poesie e prose, e lettere che sono esse stesse letteratura di eccezionale valore nella storia russa. La loro fu densa, ispirata e partecipe collaborazione, sostegno al reciproco lavoro poetico; fu crescita letteraria e personale, fu vera amicizia e fu vero amore. Pieno di impeto e di slanci. A Marina toccò sostenere Pasternack, incoraggiarlo ed approvarlo, quando sembrava arenarsi tra dubbi e incertezze creative. Pasternack la inondava di sincera esaltata ammirazione.
Sul foglio si facevano reciproche promesse di incontri, che poi scansavono nella vita reale per i più svariati motivi: fissavano i giorni e i luoghi, sognavano che quei giorni arrivassero, riempivano di attesa ansiosa le lettere; si aspettavano, continuavano ad aspettarsi, struggendosi nell’attesa…. senza mai incontrarsi. Mai. In una lettera, una frase di Marina, prennuncia e decreta il destino tra loro:
“Io non posso essere presenza, e neanche tu. Andremmo d’accordo.”
Gli anni ’20 li passarono ad aspettarsi, corrispondendosi un amore pieno di lanci e rilanci. Ogni volta il loro reale Incontro si creava fuori da stanze e stazioni ferroviarie, mai dentro “il mondo dei corpi” e la stretta di braccia, perché non era l’amore fisico che aveva realmente bisogno di compiersi per Marina. Le sue idee erano chiare quanto spiazzanti ed anticonvenzionali: “Gelosia? Mi ritiro, semplicemente, come l’anima si ritira sempre davanti al corpo…”
Nella vita come nella poesia Marina idealizzava le persone, i suoi protagonisti preferiti erano sempre gli amanti che la vita teneva separati e in situazioni di impossibilità ad incontrarsi fisicamente; vicinissimi e pur lontani e pur travolti uno dall’altra, capaci di “riconoscersi” attraverso le Vie di un’affinità esistenziale che era a distanze impensabili per i comuni mortali:
“Tu sai di che cosa io ho voglia – quando voglio. Di oscuramento, rischiaramento, trasfigurazione. Dell’estrema sporgenza dell’anima altrui – e della mia. Delle parole che non sentirai, non dirai mai. Dell’inaudito. Del mostruoso. Del miracolo.” Era questo: era l’estrema sporgenza della sua anima, delle loro anime, che li rendeva capaci di percepire la vibrazione, l’oscillazione, del corpo assente dell’altro accanto al proprio e in grado di sorreggerli nelle fatiche quotidiane; di sentire davvero, di sentire come vero, dentro ogni nuovo giorno, l’immaterialità del passo gentile e fermo dell’altro.
Era il sogno dell’altro che importava per Marina sopra ogni cosa, ben sopra la presenza materiale: “Quando amate una persona, avete sempre voglia che se ne vada, per poter sognare di lei.”
In questa sua verità esistenziale, in questo suo modo di procedere negli affetti, Marina rinunciava alla felicità per la libertà.
Pasternack riusciva a raggiungere vette altissime di dedizione intellettuale, di eccitato ed impetuoso trasporto emotivo verso Cvetaeva: le esprimeva il suo desiderio di vivere con lei, di lavorare insieme per trarne reciproca ispirazione. Lei rispondeva che non poteva con un’anima vivere in una casa, magari in un bosco poteva, in un bosco sì. Un bosco, che fosse incantato come il suo amore per Pasternack; Marina non accettava nulla che non fosse straordinario, cioè fuori dall’ordinarietà di una vita quotidiana e pratica.
“Le nostre vite si somigliano, anche io amo coloro con cui vivo, ma si tratta di sorte. Tu, invece, sei la mia libertà, la libertà puškiniana, quella che viene data in cambio della felicità (non credo affatto che con te sarei felice! La felicità?: Pour la galerie e fùr den Pöbel). Tu sei il mio fratello delle vette, tutto il resto, nella mia vita è pianura.”
Continuarono a travolgersi e stravolgersi a vicenda, mentre la vita dei due scorreva, mentre Pasternack cambiava moglie e Marina continuava, infelice, le sue fughe e peregrinazioni alla ricerca di una vita meno dura e di altro amore, sempre amore, amore che non le bastava mai.
Vi fu un anno, il 1926, in cui le loro tempestose esistenze incontrarono quella di Rilke, idolo e oggetto di venerazione per entrambi; l’essenza stessa della poesia, dell’amore di Marina per la Germania e la lingua tedesca che conosceva alla perfezione. In quei mesi la concentrazione emotiva di Marina si fissò su di lui. Pasternack, che si era fatto tramite tra lei e Rilke, sembrò andare in ombra, lui stesso sembrò capire di dover retrocedere… ma erano gli ultimi mesi di vita di Rilke, passati in un sanatorio in Svizzera. Durò poco e andò come sempre andava con Marina. Dapprima Rilke si consegnò fiducioso e disarmato agli straripamenti d’anima di Marina, all’inizio venne sinceramente preso, catturato, da lei: era un altro Incontro di anime alte e affini. Poi Marina chiese a Rilke un incontro vero in una città (così scrisse…lo voleva davvero? o era ancora il “sogno dell ‘incontro” che voleva?). Rilke si mostrò timido alla richiesta, si tirò indietro, perché minato dalla malattia, ma anche spaventato e disorientato dalle ultime lettere di Marina, poco interessata alla fragilità dell’uomo reale: ovvero, interessata alla sua condizione terrena nella misura in cui tale elemento le permetteva di comporre e completare dentro di sé l’immagine di Rilke; i suoi momenti di vita reale, erano, restavano, dettagli insomma.
Il poeta, consapevole della fine vicina, cercava di affermare la sua verità umana e terrena, ma Marina la ignorava e assolutizzava il loro rapporto, escludendo anche Pasternak. Tutto questo sembrò “crudele” a Rilke. Marina allora indietreggiò, cercò di spiegarsi, gli scrisse di non volere davvero un incontro fisico, ma Rilke lasciò che tutto cadesse, non le rispose più, altro e diverso era il momento che viveva, diversa la condivisione che cercava. Alla fine di quell’anno morì di leucemia.
La morte di Rilke riunì nuovamente Marina a Pasternack. (Per Boris fu un colpo spirituale terribile da cui riprendersi. Viveva del sogno di poterlo incontrare e mai lo aveva incontrato; di nuovo la storia di un incontro sognato tutta una vita e andato mancato….). “La sua morte – gli scrisse Marina – è il diritto alla mia esistenza con te, ma diritto è poco – è l’ordine di farlo, impartito dalla sua stessa mano.” La verità è che la morte di Rilke, cambiò molto dentro di loro e cambiò tutto tra di loro. Cambiò per sempre Marina, che sempre più spesso scrisse in prosa e non in poesia, che sempre tenne ancorato il suo pensiero a quello di Rilke (dopotutto era diventato l’amore impossibile, quello costruito e vissuto nel desiderio dell’altro, la sua idea di amore ideale pur se infelice). La verità è che Rilke li lasciò: lasciò due orfani che continuarono ad aggrapparsi l’uno all’altra, dentro un mondo esclusivo a loro congeniale, anche per resistere alla vita, alla tentazione della morte.
Fino al 1935 continuarono a scriversi, ma negli ultimi anni le loro Parole andarono riducendosi fino a che non scomparvero del tutto. E poi, per caso, capitò che si incontrassero, ad un Congresso a Parigi, ma furono momenti sbagliati: Pasternak arrivò tardi all’inaugurazione, portandosi dietro un fatale carico di pesantezza, di sofferta concentrazione, per gli eventi della sua vita privata, nulla gli andava bene, nemmeno la salute. Marina sentì di non esserci, di non occupare più uno spazio nell’ anima di Pasternack, ne fu profondamente ferita, l’incontro la mise di fronte alla nuova Verità tra loro. Ciò che era stato, ciò che tra loro era avvenuto ad Altezze inimmaginabili, nel prodigioso incontro di traboccanti Sensibilità, era finito per sempre. Ora c’era la terra, ora rimaneva la Terra: più tardi, negli anni, si videro di frequente, e Pasternak si offrì spesso e con impegno ad aiutarla ed appoggiarla; ma era il Suolo, era Pianura (era la vita a terra), e una volta caduti da Cime così Alte come potervi mai risalire…. Anche orfani uno dell’altra, andarono avanti, Marina andò avanti: se pure la sua resa terrena non fosse tanto lontana dal compiersi, non smise mai di provare a vivere; provare a vivere non fu facile per una creatura che tutto poteva fuorché vivere frammentata, frantumata dentro ai giorni, negli spazi interminabili di una vita piena di stenti e con la poesia traboccante nel cuore che necessitava di varchi sicuri per uscire. Senza pelle, sprovvista di difese, era nei Crocevia degli scorticati vivi che abitava, lì stava e aspettava Visitatori; mai rassegnata a tradire sé stessa, a fare a meno di un’anima tanto vasta quanto ingombrante, ostinata e stonata nel dichiarare la propria presenza al mondo ma anche fuori dal mondo.
Ci provò con tutto l’amore, vero e inventato, vero pur se inventato (nel sovraccarico delle sue urgenze interiori) che cercò e che le capitò di incontrare. Ci provò, e non fallì.
Marina, è l’amica di chi crede nella consistenza esistenziale, nella densità materiale irrinunciabile della Parola; e della Poesia come sua essenza, come sua terrena divinità. In questa Dimensione, a braccia protese, aspetta l’Altro: “Scrivimi, oppure non scrivermi, di tutto – come vuoi. Io, a parte tutto, cioè prima di tutto, e più tardi di tutto (fino alla prima luce dell’alba!) ti sono amica.” (R.M.)
Bibliografia (per approfondire l’umanità di Marina Cvetaeva e il rapporto con Pasternak e Rilke)
– Il paese dell’Anima (Lettere 1909-1925); Biblioteca Adelphi 201
– Il settimo sogno – Lettere 1926 – Cvetaeva, Pasternak, Rilke; Editori Riuniti
– Marina Cvetaeva, mia madre di Ariadna Efrón – La Tartaruga Edizioni