EROI PER FORZA, EROINE PER CASO
Ricordo ancora quando lessi quell’articolo bello bello di Emanuela Audisio che s’intitolava “L’Olimpiade è femmina”. Era il 22 settembre del 2000. Sì, perché a Sydney, nell’Olimpiade del lamento, del “siamo rimasti senza fondi” e del “Coni che arranca” (perché era stato prosciugato del grande filone rappresentato dal Totocalcio), tutto sembrava perduto. C’era un clima di disfatta già prima di partire.
E dire che per me invece quello era l’anno in cui una donna che teneva in mano la fiaccola avrebbe acceso, per la prima volta, il Braciere olimpico. Il sogno olimpico. E lo faceva con il braccio lungo, magro, muscolato di Cathy Freeman, su cui spiccava la scritta I ’ m f r e e – s o n o l i b e r a .
Tutto dipende sempre da qual è lo Sguardo con cui si guardano le cose. E’ quello Sguardo che fa la differenza tra vedere e stare solo a guardare. A Sydney le donne vinsero 6 su 13 ori. Perché lo sto dicendo? Perché poi alle Olimpiadi invernali che seguirono, a Salt Lake City, le donne ne vinsero 3 su 4. Ma cosa c’entra con l’oggi? – direte. Beh, a dire il vero, molto. E a me fa molto ridere. Mi fa ridere la statistica. State a sentire: a Sidney le atlete italiane convocate furono solo 115 mentre gli uomini 246. A Salt Lake parteciparono 47 donne su 112 atleti italiani in totale. E facendo due conti, gli atleti che gareggiarono a Sydney furono 6.579 Uomini e 4.068 Donne. Che brutto divario! Che successo dico io, visto che solo 4 anni prima ad Atlanta le donne furono 3.511 mentre gli uomini 6.817.
Cosa è cambiato oggi? Quasi vent’anni dopo? Quasi nulla potrei dire. Le donne continuano a vincere di più. E a essere convocate di meno.
(A proposito: GRAZIE MICHELA, GRAZIE ARIANNA, GRAZIE SOFIA, per le grandi emozioni. E COMPLIMENTI, per le vostre bellissime vittorie!!!)
Cosa è cambiato da allora? Nulla, perché a Pyeongchang le atlete sono ancora 48 mentre gli atleti 78.
Che dire? Che siamo più brave? Non dite che abbiamo più palle per favore, perché qui si dimostra che chi le ha, alle competizioni dove conta portare a casa una vittoria olimpica, proprio questi attributi non fanno la differenza che le leggende narrano.
D’altronde ho ancora davanti agli occhi quello ‘scricciolo’ di Annarita Sidoti, la marciatrice di 151 cm e 40 kg che portò a casa quel meraviglioso e unico oro ai Mondiali di Atletica di Atene del 1997, quando l’Italia pareva ormai certo che non avrebbe mai vinto nulla di nulla. ‘Annina’ che sfrecciavi nelle strade polverose della tua Sicilia sotto il sole. A quei Mondiali fosti la prima insperata Medaglia per l’Italia. Una boccata d’aria – dissero di te. Lo eri davvero, anche come persona. Una medaglia inaspettata. Già. Quando gli Ori li vincono le donne le medaglie sono sempre inaspettate. Medaglie di persone più che di atlete. Beh, poveri uomini però, voi invece dovete sempre vincerle. E’ un imperativo. E quando non succede le vostre non sono mai medaglie che non avete vinto, ma più che altro che avete perso. Molto ingiusto direi. E triste. Lo sport non è più portatore di valori come lo era un tempo, se ci guardiamo indietro, molto indietro.
Per i Greci, la cosa più importante era l’Aretè, l’eccellenza o anche la virtù. Un eccellere che era rappresentato concretamente da una corona d’ulivo, simbolo però di qualcosa che andava ben oltre. Il gesto d’incoronare il primo, trascendeva la vittoria stessa riempiendola di un senso che andava al di là dell’aver superato gli avversari; voleva dire coraggio, capacità di battersi, di mettersi in gioco, di fallire e rialzarsi, di sacrificare tanto e faticare ancora di più: era il superare se stessi. Era un gesto portatore di valori forti e utili alla comunità.
Quanto sono necessari ora, a questa nostra società! Dov’è quello sport? Poichè quell’Aretè greca ce la siamo proprio dimenticata e i valori umani che quella concezione di sport, le Olimpiadi in particolare, promuoveva, sono ormai smarriti. Spero non estinti. E anche la nostra humanitas, quella che per Terenzio significava più di ogni altra cosa volontà di comprendere le ragioni dell’altro, di sentire la sua pena come pena di tutti, non si trova più. Quella che nel gareggiare rende ogni atleta uguale all’altro. Uomo e donna. Entrambi. Diversi solo per forza, talento e volontà di eccellere.
Humanitas non pervenuta: quella per cui l’avversario non è più un nemico, è un altro e basta, non qualcuno da ingannare con mille ingegnose astuzie, da schiacciare, da battere quasi umiliandolo, senza pietas, senza grazia, ma un’altra persona come lo siamo tutti, da comprendere e stimare quando è migliore in quello che fa: “sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano”. Dov’è questo sport? Uno sport umano di esseri umani tutti uguali. Oggi il concetto di atleta è così lontano da quello di persona, da non rammentare a chi guarda che gli atleti e le atlete sono donne e uomini veri e non delle macchine da performance.
A volte penso che forse anche per questo noi donne vinciamo di più. Perché noi non siamo mai sui giornali, mai sulle copertine per ciò che facciamo. Per ciò che ci fanno sì, se ci molestano o c’è un femminicidio. O a meno che non ci sia una qualche nudità provocante da mostrare che nutra e si nutra dell’immaginario comune sul femminile. Quasi mai però veniamo mostrate per chi siamo davvero. Oh, se vinci un Oro si! certo … perché quello non si può negare, è in diretta mondiale.
Allora la copertina è assicurata. Dai mass-media la maggior parte delle volte la donna viene mostrata per non essere vista ma solo guardata. Certo, siamo invisibili, ma sempre più spesso penso che proprio per questo forse, riusciamo a vincere di più. Sì, nella vita dobbiamo fare un tantissime cose, quasi tutto, con maggiori difficoltà: studiare di più facendo meno carriera, lavorare molto e meno retribuite; accudire figli e famiglia. Che fatica. Forse però – a volte penso – cosa è poi vincere un oro per persone così? Per donne così: eccezionali. Che nella vita riescono a essere tante cose, tra cui essere atlete vincenti è solamente una. Sì, non ci vedono, ma nell’Ombra ci muoviamo e, restando ciò che siamo, ci è “concesso” di vincere, perché non viene preteso, come accade agli uomini. Da loro invece ci si aspetta sempre un gol, un canestro in più, qualche secondo in meno. Un Oro. Gli atleti sempre sui giornali, prendono un sacco di soldi, mi sembra il minimo. Ma così, paradossalmente, anche loro non vengono “visti”. Tutto accade nella maniera opposta, ma con lo stesso sguardo: quindi medesimo risultato. Che sproporzione. Che brutto lo sport fatto così se ci pensate bene. Per entrambi i sessi. C’è chi deve vincere a tutti i costi e c’è chi, se lo fa, sorprende tutti perché nessuno lo credeva possibile. Lo sport dovrebbe mettere ogni Atleta (che bella parola, un neutro che si usa per uomini e donne) nelle stesse condizioni.
È solo questo che vorrei dire. È solo questo che vorrei. Le medesime opportunità. Che peraltro è una delle principali regole del fair play. Stesse opportunità. Per le donne più possibilità: economiche, di spazi cui accedere, di mezzi per allenarsi e, soprattutto, di credibilità. Per gli uomini: minor pressione, adeguate aspettative e speranze meno ansiose. Ogni Atleta dovrebbe poter rimanere una persona. Persone che fanno sport. Nello stesso identico modo. Con le stesse possibilità di partecipazione e le stesse probabilità di vittoria o di sconfitta. Probabilità che dipendono da una sola cosa. Se stessi e i propri avversari. Così dovrebbe essere. Non Eroi a tutti i costi, o Eroine per caso. Queste vittorie ragazze valgono doppio, anzi triplo. Ve le meritate tutte. E’ un onore avervi potute vedere. Vedervi portare alta la bandiera di una nazione che non vi aiuta. E avervi visto scendere in pista a 100 km/h, librarvi in volo in quell’elegante e perfetto equilibrio o sfrecciare sul ghiaccio sfiorandolo con grazia e tenendo la testa dall’inizio alla fine senza mai mollare. Mai. E’ stato un onore avervi visto vincere, davvero. Mentre vivevate l’istante con tutta la forza, il coraggio e la determinazione di donne quotidianamente straordinarie. (R.F.)