Vedove o attrici, la centralità femminile nel cinema
Nei film di questa stagione cinematografica, per lo meno in quelli più interessanti, spicca la centralità delle vite femminili: come se fossero una cifra senza cui non è più possibile capire il mondo. Vite di donne non oggettivate o funzionali ai bisogni degli sguardi maschili, ma diventate, come per miracolo, soggetti, anche nelle visioni dei registi maschi.
Non si tratta, naturalmente, di un miracolo ma del frutto degli ultimi sei decenni di movimenti femministi, che hanno dato alle donne capaci di coglierli i riferimenti simbolici per esprimere con libertà in tutti i campi la loro esperienza e visione del mondo. Non è stato un percorso facile né lineare: ricordo vividamente la sensazione nuova e inebriante provata quando vidi la protagonista di Lezioni di piano di Jane Campion (1993) sbarcare sulla spiaggia australiana e guardare con i propri occhi il mondo che l’attendeva. Era proprio lei che guardava, e non qualcun altro che guardava lei dal di fuori o al posto suo. Niente di simile mi era mai capitato al cinema prima di allora.
A questa categoria appartengono Widows di Steve McQueen e i Tre volti di Jafar Panahi, presenti in questi giorni nelle sale. Il primo, va detto, non è un film perfettamente riuscito, risente di discontinuità nel ritmo e intermittente spessore dei personaggi, almeno in base alle precedenti ottime prove fornite dal regista (la sua ultima era il bellissimo 12 anni schiavo, 2013). Ma colpisce il passaggio da storie di angoscia e sfruttamento con protagonisti maschi a una vicenda tutta di donne. Il film si apre con la morte violenta dei mariti delle protagoniste, rapinatori uccisi dalla polizia durante un colpo: così viene sgombrato il campo! Alle vedove, oltre a dolore e smarrimento, rimane la rovina economica: ricattate da un’organizzazione criminale con cui i mariti erano in debito, dovranno pagare al posto loro. Entrate in possesso del progetto dettagliato della successiva rapina che gli uomini avevano in mente, per pagare il debito e salvarsi decidono di metterlo in pratica.
La storia rientra nel genere dei film d’azione, salvo il fatto che le nostre eroine non si trasformano improvvisamente in improbabili guerriere, a cui il cinema d’azione ci ha ormai abituato: si preparano con scrupolo, con tutta l’intelligenza e le risorse di cui dispongono, ma rimangono donne normali che maneggiano goffamente una pistola. Il loro piano avrà successo anche grazie alla totale sottovalutazione da parte dei maschi che incrociano il loro cammino. Prima uno scagnozzo del boss da cui sono minacciate, che scopre le loro intenzioni, assiste al colpo e le deruba del malloppo: è talmente sicuro di essere più furbo e che quelle quattro sfigate non sapranno reagire! Ma dopo il primo spaesamento la reazione arriva, e il ladro, oltre a perdere la refurtiva, farà una brutta fine. Datesi appuntamento nel covo segreto dei mariti dopo la rapina, ecco il colpo di scena: è stato uno di loro a tradire e far uccidere i compagni, per poter fuggire indisturbato con soldi e amante. E di nuovo entra in gioco la svalutazione: “Non potevi semplicemente consegnare loro il piano della rapina per pagare il debito, come avrebbe fatto qualunque donna normale?”, dice costui alla moglie mentre le punta la pistola per ucciderla. In queste parole quanto biasimo per le sue aspettative deluse! Ma sarà la donna a sparare a sorpresa e a farlo fuori.
Colpisce che le vedove rapinatrici di Steve McQueen mostrino che cosa succede se le donne escono da quell’atteggiamento interiore che il femminismo ha chiamato “automoderazione”: l’inibizione volontaria delle proprie capacità e risorse quando non si confanno a ciò che la società (degli uomini) si aspetta da loro. Un problema che ci ha riguardato o ci riguarda tutte. Un atteggiamento che le donne sconfiggono sempre di più, se un sensibile regista contemporaneo può raccontare una storia del genere in questo modo. Quelle che invece non mutano sono le aspettative maschili, e la reazione alla loro delusione come sappiamo è spesso violenta.
Anche Panahi incentra il suo film sulla figura di tre donne. Sono tre generazioni e tre gradi di libertà diversi. Il regista e la famosa attrice Benhaz Jafari, nei panni di se stessi, si recano in automobile in una remota provincia dell’Iran: una ragazza ha inscenato il suicidio e li ha chiamati in aiuto per mezzo di un video telefonico. Il grido di aiuto riguarda la possibilità di poter gestire liberamente la propria vita futura. La ragazza vuole recitare, è stata ammessa all’accademia d’arte drammatica di Teheran ma la famiglia non vuole lasciarla andare. Per convincerli ha pure acconsentito al matrimonio ma non è servito a nulla, i genitori hanno fatto false promesse. Disperata, si inventa il fantasioso espediente di attirare l’attenzione della famosa attrice, amata da tutti attraverso la televisione, anche dalla sua famiglia. La prima donna è dunque una giovane che lotta per il suo desiderio in un paese che sancisce l’inferiorità giuridica delle donne. La famosa attrice è la seconda donna: una donna adulta che (non sappiamo in seguito a quali favorevoli circostanze) ha potuto intraprendere una carriera di successo e sottrarsi al matrimonio forzoso, come veniamo a sapere vive sola a Teheran. La terza donna è una celebre attrice del periodo precedente la rivoluzione islamica che vive in ritiro, evitata da tutti, nel paesino della remota provincia. Una donna vecchia, reduce da un glorioso passato considerato scandaloso, che passa l’ultima parte della vita in solitudine e povertà, colpita dalla disapprovazione sociale. Dopo una prima crisi di rabbia contro la ragazza che, fingendo di suicidarsi, l’ha fatta terribilmente preoccupare, Benhaz comprende le ragioni che stanno dietro l’enormità del suo gesto e cerca di aiutarla. Insieme a Panahi, che saggiamente si tiene sullo sfondo, visita la famiglia della giovane, ma tutti i suoi tentativi affondano nella melma di un’ospitalità asfissiante e convenzionale: tutti si precipitano a far accomodare gli ospiti e offrire loro il tè, nessuno ascolta quello che hanno da dire. Da qualcuno Benhaz viene addirittura guardata con compassione perché non è sposata, e considerata infelice. La nozione di felicità per una donna è la posta in gioco: in quel mondo una donna può essere felice solo se si sposa e fa figli, e non finisce vecchia e sola come l’ex attrice che vive ai margini del villaggio. Che peraltro ci viene mostrata solo da lontano mentre dipinge (beatamente?) all’aperto. E da lei Benhaz si rifugerà per passare serenamente la notte.
C’è una distinzione fondamentale che non può essere ignorata tra le donne dei due film: le donne iraniane sono afflitte da una cittadinanza mutilata per mezzo di una legge scritta, le vedove di McQueen sono cittadine a pieno titolo che devono fare i conti con la violenza di fatto, pregiudizi, svalorizzazione e costrizioni spesso impalpabili. Per aiutarci a capire, una volta di più, che i diritti sono certo necessari, ma tutt’altro che sufficienti. Ma anche che doverne fare a meno rende la vita delle donne ancora più difficile.
Un elemento importante accomuna invece queste donne: tutte rifiutano il consenso al sistema maschile in cui sono inserite, e lottano per costruirsi una vita imprevista. Una vita eccentrica rispetto a ciò che altri hanno immaginato per loro: né vedove inermi, né madri di famiglia soddisfatte. E tutte cercano di realizzare questa vita diversa mettendosi in relazione tra loro.
Se il cinema ormai così spesso documenta e simpatizza con questo tipo di storie, forse è proprio vero che stiamo assistendo al declino del patriarcato! Incrociamo le dita. (C.S.)