Per un mondo di gratitudine
C’è un film che non mi sento all’altezza di commentare ma che mi dispiace troppo lasciar passare senza rendergli onore: Roma, del regista messicano Alfonso Cuaròn. Condividiamo lo stesso anno di nascita, il 1961, ed è infatti straordinario il sentimento comune verso quel mondo dell’infanzia dei primi anni ’70, sperimentato in due punti lontanissimi del pianeta, che sprigiona dal bianco e nero scelto per fare il film: pieno di corpo e sontuoso ma nient’affatto estetizzante, così naturale da farmi rivivere la bella Tv senza colori con cui noi bambini dell’epoca siamo cresciuti.
Luccicare in bianco e nero vediamo, come prima immagine umana del film, la pelle ambrata delle meravigliose gambe di Cleo, la domestica india protagonista del film: gambe forti, infaticabili, che si muovono salde e senza sosta, portatrici di una storia antica di intenso contatto con la terra. Il suo incessante affaccendarsi nelle stanze della casa, dal cortile interno spazzato ogni giorno fino al terrazzo sul tetto in cima ad un’erta scala, dove Cleo fa il bucato, è il filo conduttore della storia e tiene insieme la famiglia di cui si occupa, una famiglia borghese (il padrone di casa è medico) che vive a Città del Messico nel quartiere che al film dà il titolo, tra il 1970 e il 1971.
E’ un’esplosione della quotidianità come sostanza vera e imprescindibile della nostra esistenza; tutti gli eventi, anche i momenti tragici, vengono filtrati attraverso i gesti della vita quotidiana, che occupano felicemente il posto dei colpi di scena e degli espedienti tipici della narrazione cinematografica. Stabiliscono un ritmo di continuità ripetitiva che, lungi dall’annoiare, incanta: non si finirebbe mai di seguire la sapienza e la cura che Cleo infonde in ogni sua mossa, che sia preparare il tè, rifare i letti o scherzare la sera nella loro comune stanza con la sua aiutante ed amica Adela. Nell’ultima inquadratura, quando la vediamo salire per l’ultima volta la scala verso il tetto con in mano la catinella del bucato, sentiamo già la sua mancanza, come se il suo modo di gestire fosse stato per due ore un ancoraggio più sicuro e più lieve alla realtà.
In questa vita quotidiana che via via si dipana veniamo a conoscere la padrona di casa, Sofia, che come molte donne borghesi del tempo si è laureata ma dopo il matrimonio vive in casa facendo la moglie e la madre di quattro figli; un matrimonio che la imprigiona in una costante ansia affettiva nei confronti di un marito quasi sempre assente da casa, e che infatti un giorno parte per un congresso medico all’estero e non fa più ritorno. Nel frattempo, durante la loro giornata libera, Cleo e Adela escono a divertirsi con i loro rispettivi ragazzi, ma Cleo rimane incinta e il suo supposto fidanzato sparisce all’istante senza una parola. Il marito di Sofia è fuggito ad Acapulco con una giovanissima amante, il ragazzo di Cleo, perduto nel culto fanatico delle arti marziali, fa parte di un gruppo reazionario che uccide per strada gli studenti durante le manifestazioni. Anche il Messico è attraversato dalle rivolte giovanili, come quasi tutto il mondo di quegli anni, ma i sogni di cambiamento di quella generazione messicana subiscono una repressione ferocissima da parte della polizia e delle organizzazioni paramilitari fasciste. Vedere ragazzi assassinati per strada fa parte della quotidianità, e infatti capita anche a Cleo e ai bambini suoi protetti, usciti insieme alla nonna. Le fosse comuni piene di cadaveri mai identificati passeranno tristemente alla storia.
Abbandonate dagli uomini, distratti da progetti futili o mostruosi, Cleo e Sofia rafforzano la loro alleanza e mantengono fermo il loro impegno nel lavoro di cura e riproduzione della vita. La famiglia va avanti e Cleo, con l’appoggio di Sofia, conclude la sua gravidanza: ma la bambina nasce morta. Una bambina non voluta, cosa di cui Cleo è consapevole e che la lascia in preda al senso di colpa. Partita per una vacanza al mare insieme a Sofia e ai bambini, le due donne troveranno insieme la forza di lenire i loro traumi. Cleo, buttandosi nell’oceano, pur non sapendo nuotare, per riportare a riva i due ragazzi più grandi; e Sofia, il cui ex marito l’ha lasciata senza soldi, decidendo di rimettersi a lavorare. L’abbraccio di tutto il gruppo, donne adulte e bambini, sulla spiaggia suggella la rinascita di una possibilità di futuro guidato dall’autonomia e dalle relazioni femminili.
Alfonso Cuaròn ha dichiarato di aver realizzato questo film per ringraziare le donne che lo hanno allevato, e con questo ha compiuto un atto non solo di riconoscenza ma anche di giustizia verso il lavoro di cura portato avanti dalle donne nel corso della storia. Lavoro dato per scontato e invisibile nella cultura patriarcale ma senza il quale nessuna civiltà è possibile, costituendo esso stesso l’essenza di quella che noi chiamiamo civiltà. Il regista è riuscito in questa operazione proprio perché ha tralasciato la consueta rappresentazione delle donne come vittime: Cleo e Sofia sono donne tradite dagli uomini e da un paese che ogni giorno terrorizza e massacra la sua popolazione sotto gli occhi di tutti, ma trovano un senso nella crudeltà e nella follia del reale perseguendo valori per loro irrinunciabili, la cura di sé e delle creature che sono loro affidate.
E inusitatamente affermano, attraverso la nitida e coraggiosa parola di Cleo (“io non la volevo”, dice con chiarezza della sua bambina nata morta), la facoltà femminile di rendersi o no disponibili alla creazione della vita non solo come libera scelta individuale ma come base autentica per contrastare una cultura di oppressione e di morte.
Era ora di ricevere finalmente una parola maschile simbolicamente potente che manifesta con efficacia la gratitudine per il dono della vita e del suo sostentamento, e l’accogliamo con gioia. Gratitudine come fonte di forza e felicità nelle relazioni umane e unico antidoto a questo mondo di rapina, che patriarcato e capitalismo selvaggio hanno portato al suo esito estremo. (C.S.)