Libertà nell’assenza
Troppo presto relegato nelle sale parrocchiali, Le nostre battaglie del regista Guillaume Senez è un bel film da cui si possono trarre utili riflessioni. Appartiene a quella categoria di film che ha beneficiato al meglio della ricerca di un nuovo verismo cinematografico, partita alla metà degli anni ’90 in Danimarca con il movimento Dogma, che si ribellava al dominio del cinema americano basato sugli effetti speciali e sull’eccesso di fiction fasulla; e che poi, spogliatosi dei suoi aspetti più rigidi e programmatici, che rendevano molti film di Dogma francamente antipatici, ha prodotto un linguaggio narrativo essenziale e uno sguardo ravvicinato sulle cose, capace di cogliere fedelmente alcuni cruciali cambiamenti del mondo che ci circonda.
Giustamente accostato al realismo dei fratelli Dardenne, suoi connazionali, il cineasta belga Guillaume Senez costruisce tuttavia un film molto personale, scegliendo di rappresentare un momento difficile nella vita di una famiglia operaia, soggetto di per sé poco frequentato dal cinema contemporaneo; ma il suo punto di vista originale non permette mai che i suoi personaggi, genitori e figli, vengano inghiottiti dalla condizione sociale né spossessati del loro essere donna, uomo, bambino e bambina dall’appartenenza di classe.
Vediamo Olivier, caporeparto in una fabbrica superautomatizzata che ricorda molto Amazon, dedicarsi con passione assoluta al lavoro e alla difesa degli operai della sua squadra attraverso l’impegno nel sindacato, senza peraltro poterli salvare quando per età, gravidanza o debolezza fisica non stanno al passo con la spietatezza delle nuove regole produttive. Completamente immerso nel suo rapporto con l’esterno, Olivier esce all’alba e rincasa la sera tardi, quando i figli, una bimba e un bimbo nell’età tra l’asilo e le prime classi della scuola elementare, sono già a letto. Di Laura, sua moglie, seguiamo la vita pressoché solitaria tra la casa, la cura dei bambini e un lavoro di commessa in un negozio di abbigliamento femminile a buon mercato, frequentato da clienti che prima della metà del mese si ritrovano il bancomat già esaurito. Non si viene a sapere molto di questa donna, salvo intuirne il profondo e disperato malessere, a lungo tenuto dentro di sé, che un giorno sfocia in una mossa radicale: fare la valigia e andarsene di casa senza una parola. Tranne una cartolina molto affettuosa, ricevuta con gioia dai bambini qualche tempo dopo, di lei non si avrà più notizia.
Ma la sua assenza risuona e diviene parlante, e riempie il seguito della storia: Olivier, dapprima incredulo e rabbioso, sarà costretto ad occuparsi dei suoi bambini, di cui ignora i ritmi e i bisogni quotidiani (da cosa mangiano a colazione alla loro maglietta preferita); e nel difficile apprendistato del lavoro di cura riuscirà a costruire con loro una solida connessione affettiva e a modificare il suo modo di sentire e di vivere. Dalla madre e dalla sorella, che gli stanno accanto in questo percorso senza mai giudicare il comportamento di Laura, anzi avendo per lei parole solidali di femminile comprensione, Olivier imparerà ad apprezzare l’operato della moglie e a capire le ragioni della sua crisi: aiutato in questo anche dai bambini, che mantengono intatto l’amore per la mamma assente e si oppongono al padre quando si lamenta e parla male di lei. Avendogli il sindacato offerto di lavorare al suo interno ma in un’altra città, Olivier e i bambini si trasferiscono lasciando sul muro del cortile della vecchia casa un messaggio fiducioso sul ritorno di Laura.
Ma mentre stavamo guardando il film è accaduto un fatto straordinario: lo svolgersi della vicenda ha dato valore alla capacità femminile di assentarsi, alla libertà di una donna di percepire e agire i propri cedimenti, occupandosi prima di tutto di se stessa, qualora ciò si renda necessario, lasciando perdere il resto. Capacità duramente guadagnata nel sistema simbolico patriarcale, che ci addestra all’ascolto costante dei bisogni altrui a discapito dei nostri, e caso mai ci chiama a ricoprire ruoli e responsabilità maschili lasciati vacanti.
Uscendo dalla sala dopo la visione del film, ho trovato un gruppo di spettatrici anziane scandalizzate, che dicevano a voce alta: i figli non si abbandonano mai! La facoltà femminile di assentarsi è dunque ancora molto controversa, tra di noi e spesso anche all’interno di noi stesse. Eppure sono convinta che sia una capacità fondamentale e preziosa, l’unica che ci consente di superare la tentazione dell’onnipotenza materna, che infligge così gravi danni dentro le nostre famiglie.
Assentandosi, Laura lascia al marito lo spazio per apprendere il lavoro di cura e, nel diventare capace di badare ai suoi bambini, Olivier ricostruisce l’intero di se stesso, cioè la possibilità di vivere una vita dove la sfera esterna del lavoro non è più rigidamente separata dalla gestione dei bisogni quotidiani e dagli affetti.
Guillaume Senez ha detto di aver voluto fare questo film dopo la separazione dalla propria moglie, quando in seguito a un affidamento congiunto ha vissuto la sconvolgente esperienza di doversi occupare in toto dei suoi figli come non aveva mai fatto prima.
Resta la visione angosciante dell’oppressione della fabbrica ipertecnologica, dove gli operai, maschi e femmine, sono in balia di poteri superiori impalpabili ed assoluti. Ma non si vede via d’uscita, salvo il fatto che uomini e donne possano cominciare a guardare alle reciproche esperienze con occhi diversi. Allora chissà che qualcosa non possa veramente accadere… (C.S.)