Onore al merito: Françoise Barré-Sinoussi
La notizia di una “nuova” malattia trasmissibile fu accolta nella generale incredulità, anche perché era il 1977 e da soli quattro anni si poteva dire di essere riusciti a debellare definitivamente il vaiolo, patologia che mieteva milioni di vittime all’anno da millenni. La comparsa degli antibiotici negli anni quaranta aveva poi reso improvvisamente guaribili patologie infettive come le polmoniti, gli ascessi, le sepsi e persino la peste e il colera.
La storia dell’epidemia di HIV/AIDS molti non la ricordano e tanti giovani neppure la conoscono. Appartiene alla mia generazione. Quella degli anni ’80. Anni in cui iniziavamo ad avere i primi rapporti sessuali e iniziavamo anche a “sentire” che girava questa malattia, o virus o cos’altro fosse. Pareva una leggenda metropolitana all’inizio. Una diceria. Poi iniziarono le prime morti. Poi ci dissero che chi lo prendeva sarebbe certamente morto. Ma ci si contagiava a stare vicini? E solo baciandosi? E se l’avessimo presa? Anche se facessimo gli esami prima di sei mesi mica lo sapremmo. E se fossimo sieropositivi che differenza c’è con il contrarre l’Aids? Non eravamo certi e certe di niente. Serpeggiava la paura. E cosa facciamo allora? Eravamo tutti disorientati, e non c’era come ora un facilitatore esistenziale chiamato internet. Le informazioni arrivavano di qua e di là, sporadiche, frammentate, non se ne poteva mai accertare bene le fonti. Un mio amico mi ha detto che…
Tanti dicevano che non era vero. Altri che lo era eccome! Però colpiva “solo” i gay e “solo” i tossici, un po’ come il coronavirus colpisce ora “solo” gli anziani, i vecchi. Questa è una storia che comincia nel 1981, quando fu riconosciuta l’esistenza di una nuova malattia in alcuni pazienti negli Stati Uniti: in realtà l’infezione esisteva già da molti anni, ma era stata sempre scambiata per altro. Il primo caso di sieropositività risale al 1959, quando venne prelevato da un uomo di Kinshasa un campione di sangue che, analizzato trent’anni dopo, dimostrò di contenere anticorpi all’HIV-1. Si diffuse in tutto il mondo in maniera esponenziale e divenne una vera e propria pandemia. Non c’erano cure. Presto dalla “lontana” Africa sarebbe arrivata a noi. È venuto da una scimmia vero? Ma cos’era un babbuino? Uno scimpanzè? Ma come ha fatto? No no, a me hanno detto che è stato il vaccino orale antipolio.
L’HIV, a differenza di tutte le altre epidemie fino ad allora conosciute, era mortale praticamente nel 100% dei casi diagnosticati. Non c’era scampo. Inoltre, nell’opinione generale la connessione presto dimostrata con la sfera sessuale e con l’uso di sostanze stupefacenti (eroina) legò indissolubilmente il contagio a comportamenti considerati “trasgressivi”: c’era persino chi diceva che era una punizione divina per i peccatori!
Fu nel 2009 che una donna, con i capelli corti e brizzolati, gli occhi scuri e un piglio da battagliera salì, sfilando davanti a tutte le grandi personalità del mondo, sul palco della V Conferenza dell’International Aids Society, a Città del Capo in Sudafrica. Aveva addosso una maglietta rossa con la scritta «Hiv positive», quella degli attivisti sudafricani, e strappò un lungo applauso e grida d’approvazione dall’affollata platea. Era Françoise Barré-Sinoussi, la scienziata-attivista, come ama definirsi lei. Oggi, a distanza di trentatré anni dalla scoperta che nel 2008 l’ha portata al premio Nobel per la medicina, prosegue instancabilmente la sua lotta a uno dei grandi nemici dell’uomo: l’Hiv, il virus del Ventesimo secolo. Nel febbraio del 1983, Françoise è stata la prima, assieme al suo collega e biologo francese Luc Montagnier, a isolare lo spietato virus. Peccato che quando si nomina la scoperta del virus dell’HIV tutti si ricordano il nome Montagnier mentre di Françoise, nada. La solita vecchia storia.
È lei, una delle 55 donne, di cui solo 21 per la scienza, ad aver vinto un Nobel da quando per prima nel 1903 lo vinse Marie Curie. Davvero poche. Troppo poche se si considera che il premio è stato assegnato a ben 846 uomini e solo 49 donne in totale.
Fin da piccola Barré-Sinoussi era incuriosita dai fenomeni naturali: in vacanza, ad esempio, passava ore nel giardino a osservare la fauna cercando di comprenderne il comportamento.
Desiderava più di ogni cosa frequentare l’università ma non voleva gravare economicamente sulla sua famiglia. Scelse allora di studiare Scienze alla Sorbona, la facoltà più breve ed economica tra quelle scientifiche. Dopo la laurea decise di fare esperienza di laboratorio, ma non le fu facile: trovò molti ostacoli, dovuti alla scarsità di posti e alla difficoltà di accesso ai laboratori. Un amico le suggerì di entrare in contatto con il gruppo diretto dal biologo francese Jean Claude Chermann, all’Istituto Pasteur di Parigi. Che gran consiglio! Finalmente Françoise aveva trovato quello che cercava: un Centro altamente qualificato che la ospitasse anche se come assistente volontaria. Questo fu il suo vero punto di partenza. Poco dopo ottenne un dottorato di ricerca.
Agli inizi degli anni Ottanta, quando Françoise aveva quasi quarant’anni, iniziarono a registrarsi ovunque, Parigi compresa, i primi casi di una strana e allarmante epidemia, ancora senza nome. L’istituto Pasteur dove Barré-Sinoussi lavorava fu incaricato di studiare proprio questo nuovo morbo; nel giro di poco tempo Françoise raggiunse brillanti risultati e pubblicò numerosi articoli scientifici. Contestualmente iniziò a collaborare con i paesi poveri. Capì subito che per comprendere meglio doveva mettersi in viaggio: fece la sua prima visita in Africa nel 1985, a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, in occasione di un workshop della World Health Organization (WHO). Quando arrivò restò sconvolta dalle condizioni in cui vivevano gli abitanti. Poi tra Africa e Asia non smise più di viaggiare e studiare.
Nel 2008 all’Istituto Pasteur viene riconosciuto un importantissimo ruolo nello scoperta che l’Aids è causato dal virus dell’Hiv, un virus che a causa della sua massiccia replicazione e per il danno cellulare che provoca ai linfociti, è così potente da distruggere completamente il sistema immunitario di un individuo. A illustrare questa scoperta furono il professore Luc Montagnier, direttore del gruppo di ricerca, e Françoise Barré-Sinoussi: a loro va il premio Nobel. Questi due scienziati «hanno caratterizzato questo retrovirus come il primo lentivirus umano noto, basandosi sulle sue proprietà morfologiche, biochimiche e immunologiche». Una scoperta definita «essenziale per la conoscenza attuale della biologia di questa malattia e per il suo trattamento anti-retrovirale».
Per Barré-Sinoussi, la vittoria del Nobel è stata un nuovo punto di partenza. Françoise ha saputo sfruttare la visibilità acquisita per perorare la sua causa, per portare avanti il suo attivismo rivolgendosi direttamente alle Istituzioni: fra queste, più di ogni altra, quelle di natura religiosa, che col loro dogmatismo le pareva agissero senza tenere conto veramente del bene dell’umanità. Come sostenere e chiedere di non usare il preservativo durante i rapporti sessuali se il fine era di impedire la trasmissione di un virus che dal 1982 ad oggi ha fatto 35 milioni di morti? È un atto criminale. Nel 2006 la scienziata-attivista rivolge allora un appello a Papa Benedetto XVI perché la Chiesa riveda le proprie posizioni sull’utilizzo del preservativo. «Le tesi cattoliche sui rapporti sessuali» scrive a Papa Ratzinger «sono ormai desuete e non tengono conto del fatto che un’interpretazione più moderna dei dogmi potrebbe salvare milioni di vite». Tre anni dopo, dal palco della V Conferenza dell’International Aids Society, ribadisce con forza il suo grido d’allarme: «L’Hiv non è in recessione». È questo il suo monito alla comunità internazionale, ai Grandi del G8 e agli altri Governi. È il suo “j’accuse”: «Ridurre ora, per colpa della crisi economica, gli sforzi nella lotta all’Aids sarebbe un disastro. I Governi e i leader saranno i responsabili, se non rispetteranno gli impegni presi».
L’ AIDS continua a essere ancora oggi una delle malattie sessualmente trasmissibili più diffuse. Sebbene stiano calando le vittime e le infezioni, attualmente si registra un aumento del 50% delle morti tra gli adolescenti; oltre al fatto che circa 8 milioni di persone ammalate sono ancora escluse dalle cure. Non siamo ancora riusciti a realizzare un vaccino efficace al 100% contro il virus dell’HIV. Un antidoto definitivo ancora non c’è. E forse è proprio per questo che Barré-Sinoussi – a differenza di Montaigner che ha abbracciato una pseudo-scienza riluttante ai vaccini ritenuta dall’Oms la più pericolosa del 2019 – continua a lavorare indefessa, dentro e fuori i laboratori, convinta che un giorno si possa arrivare a sconfiggere del tutto l’Aids.
Anche per la COVID-19 ancora non c’è una cura, ma arriverà di certo. Intanto, alcuni pazienti come Miguel Angel Benitez, il primo paziente ricoverato in Spagna, sono guariti grazie all’uso di farmaci antiretrovirali contro il virus dell’HIV, responsabile dell’AIDS. I due principi attivi, lopinavir e il ritonavir, sono stati usati anche per la guarigione di un paziente di Shanghai. La storia è questa. Non dimentichiamola. E non dimentichiamo tutti i medici e ricercatori che lavorano per trovare una cura. Oltre a quelli che stanno in corsia a praticarla.
Oggi come ieri.