Qualcuno bussa alla mia porta: è Alexia Mitchell
Tutto è così antico e fragile,
così inesistente.
Ciò che ho perduto
l’han perduto tutti, dal principio dei tempi.
(Alexia Mitchell)
“Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte” scrive Cristina Campo ne Gli Imperdonabili.
È proprio Cristina, nel 1954, a parlare per prima e, credo, unica, in un suo articolo sul Corriere d’Adda, di Alexia Mitchell e del suo libro di poesie Banchetto nel deserto. Ce l’ho tra le mani ora, questo prezioso libro di poesie, in una nuova e bellissima riedizione de la Noce d’oro, giovane Casa Editrice dagli occhi vivi e sempre attenti. Banquet in the desert è un irrinunciabile gioiello, la cui ristampa era davvero necessaria nella sua originaria traduzione dall’inglese di Cesarina e Riccardo Gualino, amici di Alexia Mitchell, pseudonimo di Luisina Fatichi. Solo questo e poco altro si sa di Luisina, e nonostante Campo, non avvezza al facile elogio, definisca la sua poesia capace d’insegnarci, con grazia, dal silenzio, quali colme presenze possa donarci un coraggioso distacco, viene presto dimenticata.
La poesia di Alexia è qui per nominare le cose ma ancor più per quell’accomiatarsi da loro e ricordarcele.
Oh care parole! Riecheggiano
come vento in vuote conchiglie
come vento che mormora nel deserto
attraverso i nostri vuoti teschi
È un prender congedo sommesso, ma che giunge chiaro: non è possibile souffrir la vita se non abbracciandola insieme alla Morte. E lei lo fa, in e tra ogni strofa, lo fa, pur nominandola appena. L’imago mortis come prefigurazione della morte, è presenza grave e leggerezza, a indicarci la via del distacco, nella sua semplice complessità, tra spazio che espande e costringe, tempo che fugge e istanti eterni, in una simultaneità necessaria per patire la vita.
Aspettiamo…aspettiamo…
di che siamo noi in attesa?
C’è sempre un ”sentimento lungo” – come scrive Campo – un sentimento di pre-morte, in ogni passo. Il nostro essere vivi, è, proprio in quanto “morituri”; dentro occhi bambini che guardano il mondo con l’Oh! dello stupore di fronte a bellezza e contraddizione. Sempre presente questa giusta distanza del né vicino né lontano, nelle parole di Luisina Fatichi, che si fan mezzo per un Altrove da cui s’immagina il reale, e di una realtà in cui l’Altrove pare ancor più veritiero.
Oh non è quello che diciamo
non è il frastuono delle parole,
o le risa, o le bestemmie, o i singhiozzi
che importano,
ma quello che sta
fra cuore labbra:
il bene e il male, per sempre
inespressi dentro alla transitoria
bara ambulante di noi stessi.
Noi, vuoti teschi che san risuonare la melodia del vento del deserto.
Noi qui nel mondo, non più bambini assorti a giocare, ma “soli, separati e nudi” in un mondo adulto, in “un deserto con i leoni e gli sciacalli”, mentre “i giorni sgusciano via” siamo come “prigionieri nelle celle” che “tentano di ricordare le mutevoli forme delle nuvole”
siamo
Il silenzio tra onda e onda
l’intervallo tra respiro e respiro
il tempo prima che il mio bacio
raggiunga le tue labbra
questa è la nostra verità per l’Eternità
il nostro metro per la felicità.
finché
Tutto si dissolve sempre in nulla,
tutto fuorché il nostro desiderio
di bussare alla porta,
alla porta del Labirinto.
Umani, morituri, così umani perché già morituri.
Allora, di fronte a questo, “ è inutile la pazienza, inutile l’impazienza”. Le parole. Le parole. Che sono tutto, e al tempo stesso sono nulla. Che sono le cose, e al tempo stesso le celano. Che ci fan percorrere lo spazio e al tempo stesso ci incatenano ad esso “correndo dal niente verso il niente”. La gioia sta in questo inscindibile legame tra vita e morte, bene e male, un vuoto e pieno. Alexia, dalla sua giusta distanza, quella del simultaneo vicino e lontano, riesce a guardare con distacco e trasmetterci il perfetto fluire di un tempo circolare.
Ogni mattina
l’intera gioia del mondo
giace sparsa per le strade,
pronta per essere afferrata
da mani umide di rugiada.
ma siamo troppo assonnati
per raccoglierla
e più tardi, allorché vorremmo
prenderla e possederla tutta intera,
se n’è sfuggita via,
e noi siamo vecchi.
Echi di Emily Dickinson si odono in questo “scivolar via”, legato a uno stato di non-veglia, di mancanza d’attenzione per le piccole cose, i gioielli che abbiamo tra le mani e tutt’intorno a noi.
Fra le mie dita tenevo un gioiello
Quando mi addormentai.
La giornata era calda, era tedioso il vento
E dissi “Durerà”.
Sgridai al risveglio le dita inconsapevoli
La gemma era sparita.
Ora solo un ricordo di ametista
A me rimane.
(E.D)
In fondo “souffrir pour quelque chose c’est lui avoir accordè une attention extréme”, scrive Cristina Campo; un souffrir che significa portare a sé, assumere la cosa nella sua gravità, con tutto il suo peso: questa è la condizione stessa della gioia.
Con quell’attenzione che per Simone Weil consiste “nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile al soggetto, nel mantenersi ai margini del proprio pensiero, ma a livello inferiore e senza contatto con esso” e che Alexia riesce ad accordare a pieno al suo poetare in Banchetto nel deserto.
Ogni cosa deve perire.
Ogni cosa dev’essere
svestita e denudata
bandita la tenerezza
e la pietà di noi stessi.
Allora, sotto le nude costole
udremo il cuore battere
e scuotere la gabbia.
In un perfetto grigio, vive e scrive Alexia, che i poeti sempre immaginiamo nella luce, nella verticalità, nell’altitudo. Invece “Nel ristretto cerchio di luce, circondato da ombre leggiamo, scriviamo”. Le poete, come Cristina Campo e Alexia Mitchell, “Vivono come tra questi due mondi, testimoni soltanto di ciò che immobilmente perdura: un guerriero, una stella, una morte, un cespuglio di sorbo” ( C. Campo)
Di un perfetto grigio si veste Luisina, sta in un perfetto grigio che è attesa, distacco, sospensione, in un perfetto grigio che tutto comprende , il bianco e il nero, il pieno e il vuoto, la nascita e la morte, in un armonioso e sincrono yin e yang.
Grigio
I giorni sgusciano via,
piccoli grigi vascelli,
sotto un cielo grigio
su grigi laghi stagnanti.
Soffermiamoci
presso la finestra invernale
della grigia vita.
Allorché giungerà la primavera,
col suo cielo azzurro,
o saremo morti,
o allargheremo ancora una volta
le ali ronzanti
e voleremo.
Quelle Poete che non bisogna assolutamente lasciar scivolare tra le dita.
E se questo gioiello non bastasse, stampato da pochi giorni, sempre edito da La Noce d’Oro, un altro preziosissimo libro che non vedo l’ora di leggere, Il ponte sognato, primo volume dei Diari di Alejandra Pizarnik, mai tradotto completamente in Italia, a cura di Ana Becciu e traduzione di Roberta Truscia.
Chi vuole intanto può ascoltare qui di seguito il mio podcast su Alejandra Pizarnik pubblicato da Flush per il ciclo “Vite poetiche – Altri punti di avvistamento sul reale attraverso la letteratura e la storia delle donne”
https://www.spreaker.com/user/flush/alejandra-pizarnik-vite-poetiche-2-ep-04